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    Commento alla Torà. Parashà di Shelàch: perché si rompe un bicchiere sotto la chuppà?

    In questa parashà dopo il ritorno degli esploratori dalla terra di Canaan e la loro affermazione che il paese non era conquistabile, è scritto: “Tutta la congrega alzò la voce e il popolo pianse in quella notte” (Bemidbàr, 14:1-2). Nella traduzione in aramaico denominata Targùm Yonatàn, dopo la traduzione  viene aggiunto: “e quella notte fu fissata come notte di pianto per le loro generazioni”.

    La fonte di questa aggiunta è nel Talmud babilonese (trattato Ta’anìt29a) dove è scritto: “Disse Raba a nome di R. Yochanàn: quella notte era il 9 di Av. Il Santo Benedetto disse loro: voi avete pianto senza motivo e pertanto vi dò una motivo per piangere nelle [future] generazioni”. Nel 9 di Av furono distrutti sia il primo Bet Ha-Mikdàsh dai babilonesi guidati dal re Nevukhadnetzar, sia il secondo dai romani guidati da Tito figlio dell’imperatore Vespasiano. Da allora questa data è un giorno di pianto e di digiuno.

    Nel trattato Bavà Batrà (60b) è raccontato che dopo la distruzione del secondo Bet Ha-Mikdàsh vi furono degli ebrei pii che vollero cessare di mangiare carne e bere vino in segno di lutto perché con la distruzione del santuario erano cessati i sacrifici e le libagioni. R. Yehoshua’ disse loro che su questa base avrebbero dovuto cessare di mangiare pane perché erano cessate le offerte farinacee e anche di mangiare frutta perché non si potevano più portare le primizie a Gerusalemme. Egli aggiunse: “Figli miei, venite che vi spiego: non fare lutto per niente non è possibile; perché vi è stato un decreto; fare un lutto eccessivo non è possibile perché non si fanno decreti che impegnano tutto il pubblico se il pubblico non è in grado di osservarli, ma così hanno detto i maestri […]. Tra le misure decretate dai maestri per la distruzione di Gerusalemme vi fu quella di mettere, durante i matrimoni, della cenere sulla testa dello sposo al posto dove si posano i tefillìn.  

    Nello Shulchàn ‘Arùkh (Orach Chayìm, 560:2) è scritto che “… quando unchatàn (sposo) prende moglie prende della cenere e la posa sulla testa dove si posano i tefillìn”. A questo paragrafo R. Moshè  Isserles (Cracovia, 1530-1572) aggiunge: “Vi sono località dove si usa rompere un bicchiere durante lachuppà...”. La fonte di questa usanza è nel trattato talmudico di Berakhòt (30b) dove è raccontato che Mar figlio di Ravina durante il matrimonio del figlio vide che i maestri erano troppo allegri e quindi prese un bicchiere del valore di 400 denari e lo ruppe alla loro presenza. Secondo quanto scritto da R. Isserles è evidente che la cosa venne fatta per ricordare la distruzione di Gerusalemme e per ridurre la gioia del momento.

    R. Ya’akov Farbstein in Aholè Ya’akov (Bemidbàr, p. 232) chiede per quale motivo durante la chuppà dopo che lo sposo rompe il bicchiere seguendo l’uso citato da R. Isserles, il pubblico dice “Mazal Tov”. Se la rottura viene fatta per ricordare la distruzione di Gerusalemme non si capisce perché il pubblico deva gioire per la rottura del bicchiere il cui scopo è appunto di ridurre l’allegria. E infatti egli citaR. Chayìm Hezekià Medini (Jerusalem 1834 – 1904, Hebron), che nella sua opera Sedè Chèmed (Asifàt Dinìm, Ma’arakhà 7:12) scrive che la rottura del bicchiere si è trasformata in un motivo per gioire e se dipendesse da lui abolirebbe il minhàg (usanza).

    Per questo motivo R. Rafael Meldola (Livorno, 1754-1828, Londra) nella sua opera classica Chuppàt Chatanìm (Livorno, 1787) sulle regole e usanze dei matrimoni scrive: “E come sarebbe bene se ilchatàn (quando rompe il bicchiere) dicesse almeno in silenzio il mizmòr“Sui fiumi di Babilonia là sedemmo piangendo ripensando a Sion” (Salmi, 137:1). R. Meldola scrive anche: “E sarebbe ancora meglio fare come raccomanda  R. David Halevi Segal (Ludmir, 1586-1667, Lwow) autore dell’opera Turè Zahàv nella quale scrive che in alcune località lo shamàsh legge il versetto “Se ti scordassi mai, o Gerusalemme, me scordi la mia destra” (ibid., 137:5) e il chatànripete il versetto parola per parola. Oggi l’usanza prevalente è che prima o dopo la rottura del bicchiere un chazàn canta questo versetto.

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