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    Il merito di un’intera vita morale

    La parola Tzedakà, che spesso viene tradotta come elemosina o atto di beneficenza, in realtà nella Torà, nei Profeti e nei Salmi ha un significato molto più ampio. Prima di indicare l’aiuto monetario al povero o un qualsiasi altro sostegno a una persona in difficoltà, Tzedakà rappresenta l’essere giusto (tzaddìq), la giustizia, il comportarsi rettamente, ed è per questo che questa parola viene molto spesso nei testi accostata al termine mishpàt (rettitudine). Avrahàm viene prescelto e amato da Dio – scrive la Torà (Bereshìt18:19) – “perché aveva inculcato nei suoi figli e nei suoi familiari la strada del Signore, ossia la giustizia e la rettitudine”. Lo stesso concetto lo ritroviamo nel libro di Geremia, dove è detto (9:22-23): “Così dice il Signore: Non si vanti il sapiente della sua sapienza, né il prode della sua prodezza né il ricco della sua ricchezza. Ma invece chi si vuol vantare si vanti di questo: del fatto che egli comprende e conosce Me che Io sono il Signore, che opera con bontà, diritto e giustizia (Tzedakà) nel paese, e che questo Io desidero, dice il Signore”. Sion verrà redenta, dice il profeta Isaia (1:27), “grazie alla rettitudine, e i suoi abitanti con la giustizia”. Questi sono solo alcuni esempi che dimostrano che l’idea di Tzedakà racchiude qualcosa di molto più esteso dell’atto di beneficenza in sé. L’aiuto al prossimo è certamente prescritto dalla Torà in più punti, ma non è mai chiamato “Tzedakà”. Il passaggio di significato è avvenuto forse a causa di un verso nel libro dei Salmi (112:9) che, parlando del giusto, afferma: “Dona generosamente ai poveri, la sua giustizia (Tzedakà) dura in eterno, il suo potere verrà elevato con onore”, dove la parola Tzedakà indica in realtà il merito di un’intera vita morale. 

    La mitzwà della Tzedakà oltre ad avere uno scopo salvifico collettivo per il popolo d’Israele e per la salvezza di Gerusalemme, è considerato un merito personale così importante che può salvare dalla morte, come citato nel libro dei Proverbi (10:2, 11:4): “Non serviranno le ricchezze, acquisite con ingiustizia, perché solo la Tzedakà potrà salvare dalla morte”.

    Le regole della Tzedakà sono descritte in vari passi del Talmud, e codificate dal Maimonide nel Mishnè Torà e da Rabbì Yosef Caro nello Shulchan Arukh (YoreDe’à, 247-259). Lo Shulchàn Arùkh, che è un codice normativo, prima di trattare le norme si dilunga sull’importanza di questa mitzwà, cosa abbastanza rara nella sua opera: è una mitzwà positiva quella di dare Tzedakà, secondo le proprie possibilità, ed è comandata più volte nella Torà sia in forma di precetto positivo, sia come divieto per una persona che ignora un povero, girando la testa dall’altra parte, com’è detto: “Non indurire il tuo cuore e non chiudere la tua mano”, e chiunque si comporta in questo modo è chiamato malvagio ed è considerato come un idolatra. Bisogna stare molto attenti a questa mitzwà, perché l’astenersi da essa può causare spargimento di sangue; infatti il povero che chiede l’elemosina, se non riceve del denaro in beneficenza, potrebbe morire di fame, come nel caso di Nachum Ish Gimzu (cfr. Talmud Ta’anit, 21a). Una persona non si impoverisce mai a causa della Tzedakà, né potrà mai capitargli nessun danno a causa di essa, come è detto (Isaia 32: 17): “E la ricompensa per la Tzedakà sarà la pace”. Chiunque ha misericordia per i bisognosi riceverà la misericordia da Dio. La Tzedakà respinge i decreti difficili, e in caso di carestia protegge dalla morte. Lo Shulchàn Arùkh passa poi a descrivere le modalità con le quali si deve osservare la mitzwà: chi è obbligato a dare, e chi la può ricevere; quanto bisogna dare e in che modo va data al povero; i doveri che ha una comunità di raccogliere i soldi destinati in Tzedakà e come devono essere dati a chi ne ha bisogno.

    È uso dare Tzedakà prima della Tefillà, come faceva rabbì Elazar (Bava Batrà 10a), che dava una moneta a un povero e poi pregava, sulla base del verso (Salmi 17:15): “Io, grazie alla beneficenza (tzèdeq, inteso come Tzedakà) potrò contemplare il Tuo volto”, nel senso che solo grazie alla mitzwà della Tzedakà potrò avere il merito di pregare di fronte a Dio. D’altra parte, è scritto anche nei Proverbi (21:13): “Chi chiude il proprio orecchio al grido del povero, anche quando lui invocherà (Dio) non gli verrà risposto”.

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