Pubblichiamo di seguito l’articolo di Ghila Debenedetti, sorella di Sharon Z”L, recentemente venuta a mancare.
Sharon credeva in una integrazione vera, nell’accettazione dell’altro per quello che era il suo animo al di là della forma del suo corpo. Ma del resto la natura non è stata molto generosa con lei, che detestava vedersi riflessa nello specchio o ripresa dall’obiettivo di una macchina fotografica. Quando una persona le si avvicinava in modo autentico e tentava un contatto affettuoso per conoscere chi fosse veramente, lei si sentiva onorata, grata e ne traeva beneficio per giorni. Si, perché incontri così non le capitavano spesso e salvo momenti specifici e per lo più riferiti all’infanzia, conduceva una vita prevalentemente in ambito familiare: una meravigliosa famiglia e amici stretti che per tutta la sua vita hanno cercato di farla sentire meno sola. Sharon era critica e a volte severa, ma anche molto accogliente verso tutti e accettava ogni forma di affetto e di avvicinamento purché fosse autentico. Ha lavorato molto su di sé, anche attraverso un lungo percorso di psicanalisi per diventare la donna forte ed equilibrata che era, in grado di rapportarsi e dare moltissimo agli altri. Ma la sua vita così menomata non è stata semplice in una società a tratti respingente e comunque non sempre adatta ad esigenze speciali: si doveva desiderare di andare oltre l’impatto delle due ingombranti ruote e che avrebbero voluto essere timidi passi, oltre un linguaggio a tratti difficile da capire, per stringere un cuore grande e una sensibilità tanto profonda. L’accettazione e l’integrazione sono principi che esistono sulla carta e nella mente di molti ma nel cuore e nella capacità di pochi. Ed era questa teoria non coincidente con la realtà che Sharon contestava: non accettava parole di circostanza o inviti superficiali a partecipare, se aveva anche solo la sensazione di non essere desiderata. Si indignava per le parole spese al vento perché faceva affidamento sull’affetto dell’altro e non sempre la sua fiducia era ben riposta.
Se dovessi, dunque, dire su cosa Sharon vorrebbe che lavorassimo insieme nel suo ricordo, credo che vorrebbe educare i giovani a non aver paura del diverso, a non far sentire un disabile guardato con diffidenza e con prevenzione come a volte si è sentita guardare; oggi è più semplice di un tempo perché i principi di uguaglianza e di pari opportunità sono sostenuti dalla nostra società ma vorrei trasmettere che una carezza, una parola gentile un pensiero, possono fare più di una rampa che consente di superare una barriera architettonica.
Le barriere affettive e concettuali sono molto più difficili da superare e possono ferire molto più di una strada impedita. Io sono sua sorella e per prima ho avuto difficoltà ad accettare Sharon e le sue problematiche. Per tanto tempo l’obbligo e il senso di colpa mi hanno fatto sentire a posto con me stessa, era il mio modo di dare la mia parte.
Poi ‘qualcuno’ ha deciso che dovevo andare oltre… E solo dopo la nascita della mia terza figlia con problemi ho avuto l’opportunità di andare oltre le barriere della mia sofferenza e ho cominciato ad amare i miei momenti con Sharon e a sentirmi più ricca, migliore.
Possiamo essere tutte persone migliori, ognuno a modo proprio, dando in modo autentico ciò che ci è possibile. Non verrà tutto insieme ma in modo graduale e ci renderà migliori e sarà un moto contagioso.