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    Parashà di Shemòt: Cosa fece Moshè a Midian per i suoi fratelli?

    Moshè nacque quando era in vigore il decreto del Faraone di buttare i figli maschi degli israeliti nel fiume. La madre Yokheved riuscì a nasconderlo per tre mesi grazie al fatto che era un bambino buono che non faceva rumore, ma poi essendo diventato impossibile tenerlo ancora nascosto, costruì una cesta di vimini, la rese impermeabile e la mise nel fiume affidandolo alla misericordia divina. La figlia del Faraone vide la cesta con il bambino e se lo portò alla reggia. Moshè, adottato dalla figlia del Faraone, ricevette un’educazione da principe.

    R. Avraham ibn ‘Ezra (Tudela, 1089-1167, Calahorra)  commenta che forse l’Eterno fece sì che Moshè venisse educato nella casa reale in modo che potesse sviluppare un carattere fermo e non abbattuto come quello degli schiavi. Proprio per questo non poté tollerare la violenza fatta da un aguzzino egiziano a uno schiavo israelita, e avendolo ucciso fu costretto a fuggire. Arrivato a Midian, di nuovo, venne in soccorso alla figlie di Yitrò maltrattate dai pastori locali. Inoltre, afferma ibn ‘Ezra, se fosse cresciuto tra gli israeliti sarebbe stato considerato come uno di loro e non avrebbero avuto per lui il timore reverenziale dovuto.

    Nel Midràsh (Shemòt Rabbà, 1) vi sono diverse opinioni su quale fosse l’età di Moshè quando  fu costretto a fuggire dall’Egitto. C’è chi dice che aveva vent’anni, chi quaranta. In un modo o nell’altro, passarono tanti anni fino a quando Moshè poté tornare in Egitto. In tutto questo periodo Moshè dovette guardarsi dal dare troppo nell’occhio perché, come scrive Ibn ‘Ezra (ibid., 2:15) il paese di Midian era soggetto all’Egitto. Per questo andò a pascolare il gregge di Yitrò lontano dai luoghi abitati. 

    In tutti questi anni Moshè non dimenticò i suoi fratelli schiavi in Egitto. Cosa fece per i suoi fratelli  in tutti questi anni, fino a quando venne a sapere che tutti coloro che lo volevano giustiziare erano morti, che non era più in pericolo e che poteva tornare in Egitto? 

    Una risposta la offre rav Eliyahu Benamozegh (Livorno, 1823-1900).  Negli anni 1861 e 1862 egli pubblicò sulla rivista Educatore Israelita un saggio a puntate sul Libro di Giobbe. L’autore si pose tre quesiti: chi era Giobbe, quando visse e chi ne scrisse il libro. Nel Midràsh (Bereshìt Rabbà, Vayerà, 57-58) vi sono numerose congetture offerte dai Maestri che prendono spunto da certe allusioni nei versetti da loro citati. C’è chi disse che Giobbe era contemporaneo di Avraham, chi di Ya’akov e chi dei suoi figli. Qualcuno suggerisce che Giobbe nacque quando gli israeliti scesero in Egitto e morì quando uscirono dal paese. Altri ritengono che possa essere vissuto al tempo dei Giudici, al tempo dei babilonesi o di Assuero. Infine R. Shim’on ben Lakish afferma: “Giobbe non esistette mai, il libro è una parabola”. Un passo simile appare nel Talmud (T.B., Bavà Batrà, 15a) dove Rashì (Troyes, 1040-1105) commenta: “È una parabola scritta per imparare cosa rispondere a coloro che mettono in forse la giustizia divina”. Anche il Maimonide (Cordova, 1138-1204, Il Cairo) nella Guida dei Perplessi (III, 22) scrive: ”È una parabola che intende presentare le opinioni delle persone concernenti la Provvidenza”.

    R. Benamozegh scrisse che Ibn ‘Ezra era dell’opinione che il libro di Giobbe fu scritto da Shemuel. E aggiunge: “Altri, trascinati da qualche parziale somiglianza di stile, senza altra investigazione, proclamarono Salomone autore del Poema di Giobbe”. Nel Talmud (Bavà Batrà, ibid.) c’è chi afferma che fu scritto da Moshè stesso. R. Benamozegh riporta varie indicazioni che sostengono questa opinione. E se Moshè ne fu l’autore, quale fu lo scopo? Risponde r. Benamozegh: “Mosè  autore di Giobbe in Madian, personifica nel suo eroe, Israele sofferente in Egitto a sollevarne l’animo abbattuto”.  Moshè, lontano dai suoi fratelli, non cessò di pensare a loro. Il libro di Giobbe fu la sua opera in esilio.  

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