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    Parashà di Vayèshev: Yosef aveva due prove di essere innocente

    Nella parashà è raccontato che Yosef venne venduto da nove fratelli a una carovana che viaggiava verso l’Egitto. Reuven era assente e Binyamin, il più giovane, era a casa con il padre Ya’akov. Venne acquistato come schiavo da Potifàr che, rendendosi conto delle sua straordinarie capacità, gli affidò la direzione di tutta la sua casa. 

    La moglie di Potifàr gli mise gli occhi addosso, e gli chiese di giacere con lei. Yosef rifiutò e per vendicarsi la moglie di Potifàr accusò Yosef di aver tentato di violentarla. Potifàr, non credette al racconto della moglie, ma per salvare faccia, mise Yosef in prigione, nella sezione dove venivano rinchiusi i carcerati del re. Yosef fu da Potifàr solo per un anno.  

    Il direttore della prigione, anch’egli redendosi conto delle straordinarie capacità di Yosef, gli affidò il compito di sovraintendente dei detenuti. Dopo dieci anni in prigione avvenne che il coppiere e il panettiere del re d’Egitto commessero un’offesa nei confronti del re, vennero messi in carcere nella stessa prigione dove era rinchiuso Yosef e vennero affidati alle sua cure.  

    Durante una notte, il coppiere e il panettiere del re d’Egitto ebbero ambedue un sogno; Yosef interpretò favorevolmente il sogno del coppiere, dicendogli che il re lo avrebbe ristabilito nel suo incarico e poi gli disse: ”Ma ricordati di me, quando le cose andranno bene per te, e fammi del bene ricordandomi al Faraone e fammi uscire da questa casa; perché io fui rapito  dal paese degli Ebrei, e anche qui non ho fatto nulla da esser messo in questa fossa” (Bereshìt, 40:14-15). 

    R. Shelomò Ohev (Ragusa, oggi Dubrovnik, XVII sec.) nel suo commento Shèmen Hatov  (Venezia, 1667) domanda come sia possibile che Yosef abbia pensato di essere creduto quando disse: “anche qui non ho fatto nulla”?  La moglie di Potifàr aveva affermato che “lo schiavo ebreo era venuto per insidiarla” e cosa c’era di peggio di essere messo in prigione per un atto così riprovevole? R. Ohev afferma che aveva sentito da suo padre, che disse a nome del suo maestro, che il fatto di essere stato messo in prigione era prova che Yosef non aveva commesso nessun atto riprovevole. Se Yosef avesse veramente commesso un crimine del genere, non sarebbe stato messo in prigione ma sarebbe stato giustiziato. Era stato messo in prigione per salvare la reputazione della moglie di Potifàr e dei suoi figli. 

    R. Ohev aggiunge che suo padre gli mostrò un passo nel Sefer Torat Emet (Salonicco, 1604), un compendio dello Zohar, dove viene citato il chakhàm Shelomò ben Gabirol (Malaga, 1021-1070, Valencia), il quale sostiene che ogniqualvolta nella Torà è usata la parola שִׂימה (sima, mettere), Onkelos (I se. E.V.), il traduttore della Torà in aramaico, usa il termina שוייא (shavia, in aramaico mettere). In questo caso sarebbe quindi stato appropriato che la traduzione aramaica fosse ארי שויאו יתי בבית אסירי (Ari shaviu yati bevet asire, mi misero in prigione). In questo caso Onkelos tradusse ארי מניאו יתי בבית אסירי (Ari maniu yati bevet asire, mi hanno dato un incarico nella prigione). Con questo Yosef voleva dare al coppiere una seconda prova che non aveva fatto nulla di male, e che meritava di essere liberato, altrimenti non gli sarebbe stato affidato l’incarico di prendersi cura dei detenuti reali. 

    La versione della traduzione aramaica citata da R. Ohev non è tuttavia universale; Shemuel David Luzzatto nella sua opera Ohèv Gher sulla traduzione di Onkelos (Vienna, 1830), scrive שויאו e non מניאו. La versione citata da r. Ohev appare però nel libro di Bereshìt stampato da rav Benamozegh a Livorno nel 1854 e in quello con il commento Ha’amèk Davàr di r. Naftali Tzevi Yehuda Berlin, pubblicato a Vilna nel 1879.   

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