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    La strana storia dello Yafùtzu: è giusto cantarlo ai matrimoni?

    di rav Riccardo Di Segni *

    Da qualche tempo si sta diffondendo a Roma una nuova abitudine: chiedere che durante i matrimoni venga cantato, con accompagnamento musicale, lo Yafùtzu.

    Vorrei spiegare cosa è questo canto e perché non mi entusiasma il fatto che sia cantato nei matrimoni.

    L’inno liturgico chiamato Yafùtzu, dalle prime parole, Yafùtzu oyevèkha, è, per la sua melodia solenne e toccante, uno dei brani musicali più belli della tradizione ebraica romana. Non sappiamo bene chi sia stato l’autore, benché il nome compaia come acrostico all’inizio delle quattro strofe che lo compongono: Yoàv. SI pensa che sia stato Yoàv ben Yechièl, un poeta liturgico romano del medioevo. La prima volta che compare in un testo a stampa è in un formulario ashkenazita del 1545. Poi compare nella Tefillat hachodesh sefardita livornese, in piccoli caratteri (che indicano che fosse poco usato), come inno per l’apertura dell’Aròn il sabato mattina. Il testo riprende brani della Bibbia, invocando la dispersione dei nemici, ricordando il servizio dei sacerdoti, invocando la venuta del messia.

    Non sappiamo neppure chi sia stato l’autore della famosa melodia che già era considerata come un classico antico nella raccolta curata a fine ottocento dal musicista e direttore del coro Amadio Di Segni. Potrebbe essere dei primi dell’ottocento o anche precedente.

    A Roma il suo uso era limitato a Simchàt Torà, nei tempi italiani e in quello spagnolo, al momento dell’apertura dell’Aron la sera e la mattina. È stato inserito da decenni nella trasmissione radiofonica che si fa dal Tempio Maggiore all’uscita di Kippùr, benché a Kippùr non lo si canti, a meno che nei momenti un po’ congesti di fine Kippùr prima del grande giro finale dei sefarìm, a tempio affollatissimo, vi sia la necessità di prolungare per due-tre minuti le tefillot per un esatto timing per il suono finale dello shofàr.

    L’uso così limitato di questo canto, benché bellissimo, rientra in una tradizione precisa: ogni occasione ha i suoi testi e le sue melodie, che appunto sono stati composti per l’occasione: ci sono i canti dello shabbat, delle differenti feste (Pesach,  Kippur, Purim, Chanukkà ecc) e circostanze liete (matrimoni, milòt, mishmaròt) e tristi. Il canto segnala il momento particolare, vi rimane legato ed evoca nella memoria quei momenti. Non si confondono i canti di gioia con e quelli tristi, ma nemmeno i canti di una festa con un’altra: non si canta Ma’oz tzur a Purim e non si canta Qoreè meghillà a Chanukkà. Quanto ai matrimoni, c’è stata una lunga produzione di testi e melodie specifiche per l’occasione, in tutti i riti (e anche in tutte le culture, con le varie marce nuziali ecc.).

    Ora è chiaro che lo Yafùtzu e la sua melodia non hanno niente a che vedere con una cerimonia nuziale. Nel mio ricordo personale che immagino condiviso da molti, questo canto si accompagna al suono dei campanellini dei rimmonim e alla vista eccezionale dei nostri arredi dei sefarìm dispiegata per la festa di Simchat Torà. O ai momenti emozionati della fine di Kippur. Ma che c’entra il matrimonio?

    La cerimonia del matrimonio nel rito romano è stabilita da tempo con molta precisione e una ridotta varietà di canti che si possono aggiungere di solito alla fine. È vero che c’è stata una certa evoluzione nel tempo, con relativa elasticità e strane aggiunte. Il Qechì kinnòr è un canto nuziale italiano rinascimentale con una melodia non romana, ed è stato riproposto di recente, ma è un canto nuziale. Yerushalaim shel zahav compare dopo la guerra dei 6 giorni del 1967 e Roma ha trasformato in liturgia con coro e organo una canzone nata con la chitarra e la voce da usignolo di Naomi Shemer; e non è un canto nuziale, ma una celebrazione di Yerushalaim (giustificata perlomeno dal fatto che non dovremmo dimenticare Gerusalemme al momento delle nozze).  In questi ultimi anni poi c’è stata una dialettica complicata, con tutti i non romani che hanno scelto di sposarsi al Tempio Maggiore, portando ciascuno il desiderio (spesso la decisa volontà) di seguire le proprie tradizioni e i propri canti (di qualsiasi tipo, dal liturgico al classico e al modernissimo non ebraico). Le infiltrazioni ci sono state, ma non tanto pacificamente ammesse, con discussioni e talvolta drammi di incomprensione.

    Chi vuole lo Yafùtzu al matrimonio lo fa perché lo conosce come un canto molto bello della nostra tradizione e in un momento così particolare come il matrimonio, desidera che si aggiunga al repertorio esistente. Qualcuno forse non collega il canto con una circostanza, lo considera solo parte di un repertorio.

    Ora, che si possa e si debba disporre di un repertorio è certamente una bella cosa, ma il matrimonio o una qualsiasi altra celebrazione liturgica non è un concerto in cui si scelgono i brani più significativi di un repertorio generale. Ci deve essere una logica nelle scelte.

    Per fare un esempio esterno, molti anni fa, quando lavoravo in ospedale a Venezia, conobbi un tecnico di radiologia che per arrotondare lo stipendio la sera andava a suonare e cantare nelle gondole che portavano in giro per i canali i turisti di tutto il mondo. Quando gli chiesi il repertorio, mi informò che il “pezzo” importante era sempre ‘O sole mio. Il top della canzone napoletana, finito in gondola. Il tecnico mi spiegò che il turista straniero cercava il folklore italiano e non faceva differenza tra Napoli e Venezia. Trasportando l’argomento alla nostra discussione il punto è di vedere se siamo turisti stranieri che cercano il folklore romano o se siamo ebrei romani che sappiamo distinguere le occasioni.

    Per fare un altro esempio di altre confusioni –sulle quali non sono d’accordo- ora c’è la moda tra catering e ristoranti di servire, tutto l’anno, come prelibatezza ebraica romana, le pizzarelle col miele. Che sono chiaramente una gustosa e ingegnosa soluzione locale alle difficoltà di trovare dolci e cibi adatti a Pesach. È giusto che le pizzarelle siano offerte in qualsiasi momento dell’anno? Non c’è nessun divieto, ma se ne perde il senso.

    Qualche volta, effettivamente, vi sono stati nella tradizione ebraica degli spostamenti e delle generalizzazioni. La preghiera dell’Alènu leshabbèach nasce come dichiarazione di fede per il musàf di Rosh ha Shana, e per la sua importanza è stata poi inserita nelle preghiere quotidiane. Ma si tratta di una dichiarazione di fede solenne e fondante, valida sempre. È questo il caso dello Yafùtzu?

    La questione è tutta qua: non c’è un divieto, ma una mancanza o una differenza di sensibilità. Ogni cosa andrebbe fatta al suo posto e al suo momento e solo per motivi particolari spostata. Altrimenti è come le pizzarelle servite a Rosh haShanà, il Maoz tzur cantato a Purim, ‘O sole mio suonato in gondola.

     

    • Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma
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