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    Israele alla conferenza di Glasgow sul clima: un maestro di tecnologie verdi

    Lo stato di Israele partecipa al massimo livello alla conferenza di Glasgow dedicata al pericolo del mutamento climatico e alla transizione industriale ed energetica necessaria per combatterlo. C’è il primo ministro Bennett, c’è la ministra dell’energia Karine Elharrar, nonostante le difficoltà dovute al fatto di doversi muovere in sedia a rotelle, c’è una delegazione di 200 funzionari qualificati. Prima di partire Bennett aveva dichiarato di voler stabilire il problema climatico come una delle priorità nazionali e di voler dare a Israele un ruolo da protagonista nel coordinamento internazionale sulla transizione energetica.

     

    In effetti, al di là dell’impegno politico e del livello tecnologico generale di Israele, che è abituato a tradurre le sfide più difficili in opportunità di sviluppo e innovazione, c’è una tradizione di impegno ambientale che fa di Israele uno dei paesi più qualificati a guidare lo sforzo internazionale sul clima.  Quando iniziò l’immigrazione ebraica organizzata dall’Europa in Israele, nell’ultimo quarto del diciannovesimo secolo, il paese era in condizioni disastrose, in buona parte desertico e per il resto paludoso e malarico. Lo sforzo degli ebrei che tornavano nella Terra Promessa era innanzitutto dedicato alla sua riabilitazione fisica: prosciugare le paludi, togliere le pietre dai tratti pianeggianti e irrigarli, coltivare vigne, aranceti e campi di grano, soprattutto invertire il processo di desertificazione che per due millenni aveva spogliato le colline di Giudea, Samaria e Galilea, piantandovi dei boschi. Anche per gli ebrei della Diaspora ogni occasione di vita, lieta o luttuosa è diventata da un secolo occasione di regalare a Israele altri alberi.

     

    Il progetto più vasto dell’insediamento ebraico (Yishuv) prima e poi dello stato di Israele è stato quello di trasformare il deserto in quella terra ricca e fertile (“di latte e di miele”) che raccontano le scritture e che oggi in buona parte è realizzato. Nelle foto aeree della regione, ma anche allo sguardo del turista, le zone ebraiche si riconoscono per il verde della vegetazione. E oggi questo progetto si estende anche a luoghi impossibili come il Negev: le vigne e i campi che vi prosperano sono un miracolo. Per realizzare questo immenso progetto di recupero fu impiegato innanzitutto l’entusiasmo e l’energia degli immigrati ebraici, ma contarono moltissimo anche la tecnologia agronomica, il recupero delle vecchie specie e la selezione delle nuove più resistenti, l’analisi scientifica dei problemi e le soluzioni ingegneristiche. L’irrigazione  a goccia, per fare solo un esempio, fu un’invenzione determinante per evitare di sprecare l’acqua, che da Israele si è diffusa in tutto il mondo.

     

    Non era solo l’acqua a mancare, ma almeno dalla fondazione dello stato anche l’energia è stata scarsa e costosa a causa del boicottaggio arabo. Furono così sviluppate e diffuse tecnologie di risparmio, dai semplicissimi bidoni sui tetti che in tutte le case ebraiche servono per l’acqua calda ai sofisticatissimi impianti solari ad alta energia che si sono realizzati negli ultimi anni nel Negev. E così per l’acqua: dal risparmio attentissimo e dal riciclaggio esteso fino all’80% delle acque sporche e dalle grandi vasche di deposito dell’acqua piovana che si incontrano in tutti i paesi, fino all’immensa canalizzazione che distribuisce l’acqua potabile in tutto il paese e soprattutto ai giganteschi impianti di desalinizzazione che producono oggi abbastanza acqua da aver liberato il principale specchio d’acqua dolce del paese, il Kinneret o Lago di Tiberiade, dal serio rischio di morte ecologica che correva. Israele si è appena permesso di raddoppiare la quantità d’acqua che in seguito al trattato di pace fornisce alla Giordania, la quale non potrebbe letteralmente dissetarsi senza questo aiuto. Bisogna aggiungere un’agricoltura studiata per essere sostenibile e non avvelenare il suolo col sale anche negli ambienti difficilissimi della valle del Giordano, la piscicultura in vasche nel deserto, le ricerche condotte nel golfo di Eilat per selezionare i coralli resistenti allo shock termico, le macchine per estrarre l’acqua potabile dall’umidità dell’aria, la selezione di specie vegetali resistenti e produttive, oltre a tantissime altre innovazioni, che Israele da sempre ha scelto di condividere con tutto il mondo e principalmente con i paesi in difficoltà, per esempio nell’Africa tropicale.

     

    Insomma Israele ha le carte in regola non solo per partecipare allo sforzo mondiale per combattere il mutamento climatico, ma per essere fra i suoi leader e insegnare al mondo non solo le sue numerose tecnologie ecologiche, ma soprattutto la sua mentalità, l’impegno a preservare il territorio, la sua attenzione alla natura (testimoniata dalla ricchezza della fauna selvatica che usa il suo territorio, per esempio in quello straordinario santuario delle migrazioni di uccelli che è la valle di Huna, a nord del Kinneret). Lo stato ebraico da sempre lavora per l’equilibrio ecologico, così difficile per la sua posizione geografica. Oggi anche in questo ambito può essere d’esempio a tutti.

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