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    Piero e i carabinieri

    Potevi chiedergli all’improvviso la formazione della Roma nel campionato del 1936 e lui iniziava subito ad elencare i giocatori, dal portiere all’ultima riserva. Che poi, una riserva era un ragazzo amico di famiglia e meritava un posto da titolare. Sì, perché Piero poteva aggiungere subito le sue note al gioco, all’allenamento, agli schemi, al valore di ogni giocatore. Quel Piero, il grande Piero Terracina. Il suo ricordo è e resterà sempre di ispirazione per tutti quelli, e sono molte migliaia, che l’hanno incontrato, l’hanno ascoltato, l’hanno abbracciato. Aveva una memoria formidabile, un dono di natura che lo accompagnò fino all’ultimo dei suoi giorni, la base sicura di ogni sua testimonianza davanti ai ragazzi che in perfetto silenzio riempivano aule magne e talvolta interi palazzetti dello sport.

     

    Piero ricordava tutto. Anche il racconto del nonno quando descriveva l’aria di liberazione che aveva animato il ghetto in un fondamentale passaggio storico. Poteva ripetere tutte le parole con cui suo nonno gli aveva tramandato la memoria di quella liberazione, sì proprio quella dei giorni che seguirono il 20 settembre 1870, la “Breccia di Porta Pia”, la presa di Roma. La grande storia diventava parte della memoria di Piero e lui la trasmetteva ai giovani.

     

    Poi un giorno se ne uscì così: “Ma perché nessuno parla mai della deportazione dei carabinieri?”. Era un giorno come un altro, non una data da sottolineare nel calendario per ricordare un evento speciale. Un giorno di circa 20 anni fa, all’inizio del nuovo secolo, del nuovo millennio. Chiedendogli come gli fosse venuto in mente, si otteneva una risposta un po’ severa. Intendiamoci, per quel che poteva essere burbero Piero dato che, come sa chi l’ha conosciuto, era sempre sorridente. “Non è che mi è venuto in mente. Semplicemente lo sapevo. In famiglia se ne parlava, con preoccupazione. Hanno preso i carabinieri. La situazione è grave. Bisogna ricordare la deportazione dei carabinieri perché è strettamente legata alla nostra deportazione. Se non avessero tolto di mezzo i carabinieri, non avrebbero potuto fare la razzia al ghetto e in tutta Roma”.

     

    Se torniamo indietro di due decenni, effettivamente della deportazione dei carabinieri non se ne parlava. Piero aveva ragione e non era intenzionato a mollare. Bisogna raccontarla, insisteva, perché la gente non ne sa niente. “Le notizie in qualche modo erano arrivate a casa nostra -spiegava Piero- In famiglia si sapeva dei carabinieri, ricordo che mio padre ne aveva parlato.” Certo non era uscita sui giornali dell’epoca la notizia, la radio non aveva parlato della cattura e della successiva deportazione dei carabinieri. Ma appena sussurrata nel timore generale era comunque arrivata anche nella famiglia di Piero. In un grande timore. È difficile anche solo tentare di immaginare l’atmosfera a casa sua in quei giorni dell’ottobre 1943, quando la storia stava ferma sospesa sopra le loro teste ma pronta a travolgerli.

     

    I carabinieri avevano combattuto contro i nazisti per la difesa di Roma. Avevano avuto feriti e morti. Erano fedeli al re, ma il re non c’era più. Per tutta la sua vita Piero ha parlato ai ragazzi della saggezza di suo padre, della capacità che aveva di capire le situazioni, di intuire i pericoli. Dopo la deportazione dei carabinieri gli era chiaro che aver raccolto chili di oro non sarebbe servito più a niente. Era stata persa l’ultima difesa possibile dei cittadini romani: gli ebrei ora erano esposti alla razzia. Piero non aspettava la ricorrenza del 16 ottobre per ricordare a chi lo intervistava che bisognava parlare della deportazione dei carabinieri. Poteva essere uno studente che lo chiamava per la tesina di fine anno o poteva essere un docente universitario per il suo nuovo libro, poteva essere un giornalista per un articolo su un quotidiano o poteva essere un regista per un nuovo documentario: parlate della deportazione dei carabinieri. Grazie Piero.

     

    Oggi la ricerca storica sta correndo ma, ad esempio, ancora non si conosce con esattezza il numero dei carabinieri deportati e di conseguenza non si conoscono molti nomi. Furono presi con un inganno e un tradimento. Il 6 ottobre il maresciallo Graziani, diventato ministro della repubblica inventata da Mussolini, aveva emesso un ordine: “Entro questa notte tutti i carabinieri reali siano disarmati…i militari dell’arma resteranno disarmati nei rispettivi posti…”, era la notte di mercoledì 6 ottobre 1943. Un italiano, il fascista Graziani, lanciava contro altri italiani alla fine del suo ordine una minaccia estrema: “gli ufficiali resteranno nei rispettivi alloggiamenti sotto pena in caso di disobbedienza, di esecuzione sommaria e di arresto delle rispettive famiglie.” Non ci volle molto per capire cosa voleva ottenere, bastarono le poche ore della notte. Il 7 ottobre, armati fino ai denti, i nazisti cominciarono a rastrellare i carabinieri. Kappler, capo della Gestapo a Roma, doveva avviare la deportazione degli ebrei e non voleva trovarsi di fronte migliaia di carabinieri pronti a difendere i loro concittadini.

     

    Una guerra, qualsiasi guerra e maggiormente nell’epoca contemporanea, è innanzi tutto un’impresa economica. Bisogna fare bene i conti, agire razionalmente, evitare sprechi, conservare le forze il più possibile, utilizzarle al meglio. Promozioni pronte per chi ottiene il massimo col minimo sforzo. Kappler non aveva a disposizione un’intera di divisione, non aveva 20.000 effettivi Ss da lanciare per le strade di Roma a caccia degli ebrei. Nel suo ordine emesso a tradimento, il fascista Graziani aveva parlato della “inefficienza numerica morale e combattiva” dei carabinieri, ma Kappler non la pensava come lui e non aveva alcuna intenzione di verificare sul campo il morale e la combattività dei militari dell’Arma. Molti allievi carabinieri non avevano esitato alla Magliana a sparare contro i tedeschi dopo l’8 settembre. Allievi carabinieri. A voler fare dei conti semplici, solo calcolando il numero di 2500 deportati (ma i carabinieri a Roma erano molti di più e diffusi in oltre 80 tra stazioni e caserme) Kappler si sarebbe trovato in un rapporto di grande inferiorità numerica. Impossibile avviare la cattura degli ebrei in quelle condizioni. Ci riuscì invece con l’inganno e il tradimento dei fascisti italiani.

     

    Eliminate tutte le difese, deportati i carabinieri, la strada per lui era sgombera: utilizzò solo 400 uomini e non ebbe bisogno di sparare neppure un colpo.  Nei campi nazisti i militari dell’Arma, come gli altri militari italiani catturati, non ebbero neppure il riconoscimento di prigionieri di guerra secondo le convezioni internazionali. Furono classificati semplicemente come IMI, Internati Militari Italiani. Cominciarono la lunga “Resistenza Silenziosa”, parte fondamentale di tutta la Resistenza. Ma anche qui… la storia, quella che si racconta ai ragazzi, ci mise del tempo…

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