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    Parashà di Bereshìt: È solo felicità sotto la chuppà?

    La sezione dello Shulchàn ‘Arùkh, Even Ha-’Ezer inizia con queste parole: “Ogni uomo è obbligato a prendere moglie…”.  Questo perché nella nostra parashà vi è la mitzvà di “crescete e moltiplicatevi”. 

    Il matrimonio viene fatto con la chuppà che rappresenta la casa dello sposo e i kiddushìn, cioè dando alla sposa un anello che fa sì che ella sia esclusivamente riservata al marito. Il matrimonio è quasi per tutti il giorno più felice della vita. Tuttavia nel corso dello sposalizio vi sono alcune usanze che apparentemente vengono a diminuire la felicità dell’occasione.

    R. Rafael Meldola (Livorno, 1754-1828?, Londra) nella sua opera classica Chuppàt Chatanìm (p. 21b) sulle regole e usanze dei matrimoni cita il Maimonide (Cordova, 1138-1204, Il Cairo) che scrisse: ”Quando il chatàn (sposo) prende moglie, prende della cenere e la posa sulla testa dove si mettono i tefillìn per ricordare Yerushalaim, come è detto: «Se ti dimenticherò o Yerushalaim, la mia destra dimentichi le sue capacità; si incolli la mia lingua al mio palato se non ti ricordo; se non eleverò Yerushalaim al di sopra della mia gioia»(Tehillìm, 137:5-6)”. Questa regola è  ripresa da r. Yosef Caro (Toledo, 1488-1575, Safed) che, nello Shulchàn ‘Arùkh (Orach Chayìm, 560:2), scrive “… quando un chatàn (sposo) prende moglie posa della cenere sulla testa dove si mettono i tefillìn”. R. Moshè  Isserles (Cracovia, 1530-1572) in una sua glossa aggiunge: “Vi sono località dove si usa rompere un bicchiere durante la chuppà...”. La fonte di questa usanza è nel trattato talmudico di Berakhòt (30b) dove è raccontato che Mar figlio di Ravina durante il matrimonio del figlio vide che i maestri erano troppo allegri e quindi prese un bicchiere del valore di 400 denari e lo ruppe alla loro presenza. Secondo quanto scritto da R. Isserles è evidente che la cosa venne fatta per ricordare la distruzione di Gerusalemme e per ridurre la gioia del momento. 

    R. Meldola a questo proposito osserva che al giorno d’oggi quando si rompe il bicchiere i presenti usano dire “Besiman tov” (buona fortuna) pensando che la rottura del bicchiere venga fatta per un motivo di gioia e invece non è altro che per non eccedere nella felicità ricordando la distruzione di Yerushalaim. Pertanto afferma che  sarebbe bene se il chatàn, quando rompe il bicchiere, dicesse almeno in silenzio il mizmòr “Sui fiumi di Babilonia là sedemmo piangendo ripensando a Sion” (Tehillìm, 137:1).   R Meldola aggiunge che r. David Halevi Segal (Volinia, 1586-1667, Ucraina) autore dell’opera Turè Zahàv, scrive che in alcune località lo shamàsh recita il versetto “Se ti dimenticherò, o Yerushalaim”, e lo sposo Iripete dopo di lui parola per parola.

    n effetti c’è chi afferma che la rottura del bicchiere è invece un segno di gioia! 

    R. Feivel Cohen (Brooklyn, 1937) cita il Maimonide che nel Sefer Ha-Mitzvòt (mitzvà 317) riguardo alla proibizione della Torà di “Non maledire un sordo”, scrive che è proibito maledire un israelita e  questo significa che una persona non deve maledire neppure se stesso. Per quale motivo quindi dire “Se ti dimenticherò o Yerushalaim ,,,”?. R. Cohen suggerisce che il versetto vuole solo dire che “se dimentico Yerushalaim, la mia destra si meriterebbe di dimenticarsi”, al condizionale. Non è quindi una maledizione. Inoltre egli aggiunge che il bicchiere non viene rotto per ridurre la felicità dell’occasione. Perché mai bisognerebbe inserire della tristezza nel mezzo della felicita?. Egli cita l’opera Chiddushè Harim  di r. Yitzchak Meir Alter rebbe di Gur (Polonia, 1799-1866) che riporta un passo talmudico (Ta’anìt, 30b) dove è detto: “Chiunque  faccia lutto per Yerushalaim merita di vederne la felicità (simchatà). Non è detto “meriterà e vedrà” al futuro, ma al presente. Questo significa che mentre ci si rattrista per Yerushalaim arriva subito la felicità. Pertanto la rottura del bicchiere non viene a ridurre ma ad aumentare la felicità. Oltre alla felicità della chuppà si aggiunge anche quella di Yerushalaim.     

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