Dalla tragica scena della precipitosa ritirata occidentale da Kabul arriva una buona notizia, piccola ma capace di riaccendere una scintilla di speranza. Zebulov Simantov, l’ultimo ebreo dell’Afghanistan, è vivo ed è apparso in un reportage della televisione indiana WION ( che si può vedere qui: https://www.youtube.com/watch?v=g6c-xAxQ_yY, dichiarando che, contrariamente a quanto aveva deciso in precedenza, non lascerà il suo paese, almeno non di sua volontà: “I talebani di oggi sono come quelli di vent’anni fa, quelli che mi hanno frustato coi cavi elettrici. Mi hanno messo in prigione quattro volte per cercare di convertirmi, ma io non ho ceduto e non intendo cedere. E non voglio lasciare che nessuno mi cacci via da casa mia.” Simantov ha 62 anni, di mestiere fa il commerciante di tappeti, da 15 regge da solo quel che resta della millenaria comunità ebraica dell’Afghanistan e di una cadente sinagoga nella Flower Street di Kabul, dentro una casa dove una volta vivevano quindici famiglie. Ci sono molte immagini che lo rappresentano nella vita quotidiana e in preghiera: è un uomo male in arnese, ma con una evidente fede e orgoglio per il suo ebraismo Prima che gli cadesse addosso questa difficilissimo solitudine, per un qualche anno Simantov ha condiviso l’eredità dell’ebraismo afgano con Yitzhak Levy, proveniente come lui da Herat, la seconda città dell’Afghanistan. Ma i due, come in certe storielle tradizionali ebraiche, avevano dei rapporti molto difficili, vivevano ai capi opposti della casa, pregavano in locali separati e a quel che si dice si erano anche accusati a vicenda dell’appropriazione dell’unico rotolo della Torà rimasto, finché questo fu sequestrato dai Talebani: una storia che andò più volte sui giornali e diede origine anche a un film di successo, Shalom Kabul. Poi nel 2005 Levi morì e Simantov restò solo nella casa piena di ricordi di una comunità antica e venerabile. Non è oggi, a quanto pare, che l’ultimo ebreo di Kabul si chiuderà dietro le spalle una storia millenaria. Ma si tratta di un’esile fiammella che prima o poi dovrà cedere alla violenza dei talebani o alle difficoltà materiali, lasciando solo delle tracce nei musei ed eredi nel grande rifugio di tutte le culture ebraiche, lo stato di Israele.