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    Il ricordo di Giacomo Moscati della riapertura del Tempio Maggiore: “Fu la ripartenza della vita ebraica”

    Il 5 Giugno 1944, un giorno dopo la liberazione di Roma dall’occupazione nazifascista, vennero sganciati i sigilli del Tempio Maggiore da Charles Aaron Golub, soldato ebreo americano, assieme a Gino Moscati, allora Shammàsh (custode) della Sinagoga, ed il figlio Giacomo, che ci ha da poco lasciati. Una liberazione con un passato storico ricco di coraggio, tenacia e sofferenza. Dopo l’armistizio dell’8 settembre ’43, la famiglia Moscati fu costretta a chiedere asilo in città per potersi nascondere. Vari conventi, come quello di Madre Superiora delle Suore Filippine o di Suore Povere di San Giuseppe, chiesero un lauto compenso in cambio della protezione, che la famiglia però non poteva permettersi. Il caso volle che i Moscati furono accolti e nascosti, per nove mesi, dalla solidarietà disinteressata della famiglia di Bruno Fantera, premiata poi dallo Yad Vashem, nel 2008, con il titolo di “Giusto fra le nazioni”. Giacomo rammentava tutto il periodo antecedente alla liberazione di Roma, le uscite clandestine per rimediare del cibo, la paura d’essere arrestati e persino la richiesta dei 50 chili d’oro da parte dei tedeschi. “Ricordo quando Kappler pretese i 50 chili d’oro garantendo l’incolumità degli ebrei […] Chiesero agli impiegati della Comunità di aprire la cassaforte. Fu mio padre ad aprirla, e portarono via 2 milioni di contanti e gli anelli con le pietre. Mio papà, durante l’apertura della cassaforte, rimase oltre mezz’ora con le mani in alto, con i mitra dei nazisti alla schiena. Sono stati momenti terribili”. Dietro questa tragica scena, però, c’è un aneddoto fondamentale: Gino riuscì a nascondere alcuni beni preziosi della Comunità nel Tempio Maggiore, salvandoli così dalle mani dei tedeschi. “Prima che i nazisti rubassero il contenuto della cassaforte, mio padre – racconta Giacomo in un’intervista all’ASCER (l’Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma) del 2014 – collaborò a nascondere i preziosi incunaboli, una penna d’oro e due chiavi dell’Aròn che erano, appunto, nella cassaforte. Mise tutto nella galleria sinistra delle donne, dietro ad un pannello”. Alcuni di questi oggetti preziosi furono nascosti anche nel Mikvè – la vasca per il bagno rituale – mentre i Sefarim furono spediti ad un antiquario a Via Margutta. Ad uscire di casa, in quel periodo così di tensione, erano solo Gino e Giacomo, il quale dovette occuparsi sin da piccolo di compravendere pane e sigarette. Nei suoi aneddoti alla famiglia, ci dicono i figli, Giacomo raccontava la fame, il pericolo che si correva per portare qualcosa in tavola e la paura di divenire vittime di una spiata. Dopo il periodo buio dell’occupazione, però, ecco tornare la luce e la speranza di una nuova vita: la riapertura della Sinagoga. Soldati americani, ebrei romani e prigionieri tedeschi, tutti di fronte la grande entrata del Tempio pronti per poterla spalancare. “Arrivò anche il Capitano Bergaman della Brigata Ebraica, che disse ad un soldato di prendere un arnese per aprire la porta del Tempio – ricorda Giacomo – Papà accese subito il Nèr Tamìd (Il lume) ed aprì le porte. Entrarono tutti, c’era una folla di ebrei che si era radunata di fronte al Tempio: chi ramazzava, chi spolverava, e poi baci e abbracci. […] La prima funzione fu officiata il venerdì sera, 9 giugno. Ricordo la presenza di Rav Nello Pavoncello”.  La grande emozione era anche di ritrovarsi all’interno della Sinagoga insieme a tanti correligionari sopravvissuti. Fu l’evento che fece ripartire il cuore della vita ebraica, segnata dal dolore e dalle perdite di coloro che non fecero ritorno. “Mio nonno mi raccontava che tutta la Comunità si recò al Tempio – ci dice il figlio di Giacomo, Gino – Era la gioia di coloro che avevano riacquistato la libertà”. Una data simbolo per la Comunità ebraica di Roma, di rinascita e riscatto.

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