Qualche giorno fa, in occasione della Giornata Mondiale della Terra, a Roma si è tenuta una piccola ma significativa cerimonia. Alla presenza della sindaca Virginia Raggi, l’Ambasciatore del Bahrain, Nasser Mohamed Yousef Al Belooshi, e l’Ambasciatore d’Israele in Italia, Dror Eydar, hanno voluto incontrarsi per piantare un albero al Bioparco. Ne ha riferito su «Shalom» il 20 aprile Ariela Piattelli, notando l’eccezionalità dell’evento, che si colloca nell’alveo degli Accordi di Abramo: l’avvio di un’iniziativa bilaterale che ha riavviato i rapporti fra i due Paesi, accendendo una scintilla di relazioni pacifiche, al contempo diplomatiche e sostanziali. Il verificarsi a Roma di un momento così simbolico mette in rilievo la necessità che le dinamiche di pace in Medio Oriente non siano un fatto regionale, di limitata portata e peso politico: non sfugge il peso degli USA di Trump nel costruire relazioni diplomatiche nell’area, così come il perdurare di situazioni di enorme difficoltà. Lo spostamento nel cuore ‘mediterraneo’ dell’Unione Europea serve a rilanciare e riprogrammare un’iniziativa, quella degli accordi di Abramo, che è stata apprezzata e criticata da molti e per i più diversi motivi.
Stiamo però, intanto, al livello simbolico dell’evento romano, per poi ragionare del potenziale sostanziale che si innesta su di esso e che ne è la vera ragione di essere.
D’altra parte, l’idea di piantare alberi è tutt’altro che peregrina e superficiale. In un lucido editoriale su «la Repubblica» di venerdì 23 aprile (p. 24), Stefano Mancuso ricorda che nelle battaglie per il clima un fattore indispensabile consiste nel cominciare dagli alberi. Solo permettendo che sempre più alberi possano assorbire CO2 si può immaginare di invertire la rotta della cosiddetta catastrofe climatica. Ma se, come è noto, a livello globale si stanno moltiplicando le iniziative per ridurre la produzione di CO2, contemporaneamente si deve tenere conto della necessità di interrompere la deforestazione e di promuovere la piantumazione estensiva. Solo con gli alberi si rende possibile un ipotetico bilancio positivo, che la sola riduzione della produzione non potrà mai garantire.
Il nesso fra ambiente e pace è al centro di quel meraviglioso racconto metaforico, vero e proprio manifesto poetico dell’ambientalismo pacifico, che è L’uomo che piantava alberi, di Jean Giono (ed. or. 1953). In una terra inaridita dallo sfruttamento e impoverita di risorse, un solitario cinquantenne realizza un progetto che assurge alle dimensioni del mito: pianta ogni giorno cento semi e lo fa per molti anni, trasformando il paesaggio da triste e desolato in fertile e felice.
Piantare gli alberi, allora, non significa solo ridurre la CO2 ma anche rigenerare l’ambiente a favore dell’umanità del futuro, tenendo conto degli errori del passato, cambiando da subito l’approccio alla realtà, riformulando nelle azioni concrete la sostenibilità del nostro stare nel mondo, fra l’altro standoci insieme pacificamente. La sfida è quella di garantire alle generazioni future non solo risorse adeguate, ma anche condizioni migliori di quelle che ciascuno di noi ha trovato, per poter permettere loro di fare meglio.
Fra gli alberi più importanti da piantare ritengo vi siano quelli della formazione. Se vogliamo tradurre in azione ambientale il messaggio di Jean Giono dobbiamo piantare alberi; se vogliamo cogliere la metafora alta del pensatore francese dobbiamo capire che si tratta anche di coltivare nelle scuole e nelle università la consapevolezza e la responsabilità necessarie a far crescere la naturale predisposizione alla relazione pacifica. Qui, negli accordi di Abramo, voglio cogliere lo spunto per ragionare del moltiplicarsi delle opportunità di contatto in un mondo in trasformazione. L’accensione di relazioni diplomatiche e politiche significherà presto anche possibilità di elaborare e sviluppare progetti di collaborazione nei più diversi ambiti fra cui quello formativo e educativo. La possibilità di studiare insieme è tutt’altra cosa che lo studio semplice, perché crea l’humus per la conoscenza reale, che non è fatta solo di dati e di formule, ma anche di relazioni e di processi. L’età della pandemia ha costretto un’intera generazione allo studio solitario in casa. La futura libertà comporterà anche un profondo ripensamento e superamento di queste condizioni forzate e il rilancio di sistemi di formazione interattiva e integrata, in cui il rapporto fra docenti e discenti sia riprogrammato e di nuovo promosso come chiave indispensabile per andare incontro al futuro.
L’Europa può dare molto a queste riflessioni e alla possibilità di costruzione. Intanto la complessità della storia europea, fatta di guerre, contrasti, persecuzioni ma anche della costruzione di un orizzonte condiviso per la realizzazione di una pace duratura dopo i conflitti mondiali che qui hanno avuto scaturigine, sta a testimoniare che tutto il mondo vive sulla strada di processi intrapresi e perfettibili. Si pensi alle riflessioni sulla libertà religiosa e sui diritti umani che si intersecano con quelle relative alla sicurezza e al benessere e che in ogni paese europeo sono al cuore stesso della vita democratica e ne sono la sfida permanente.
Nel campo della formazione l’Unione Europea ha dato luogo a programmi di scambio di portata crescente nel tempo.
L’Europa può dunque essere contesto di incontro primario, non esclusivo e non esaustivo, per chi viene da paesi che devono ricostruire una relazione pacifica duratura. Il contesto universitario potrà così essere anche luogo di incontro per le generazioni che guideranno il mondo di domani in una dimensione globale in cui anche il network di relazione possa essere strumento di costruzione sostenibile di una nuova dimensione globale pacifica, interattiva, operativa. Gli accordi di pace permettono, come la riduzione delle emissioni di CO2, un ridimensionamento delle cause del conflitto. Ma la riduzione da sola non basta: serve la piantumazione di nuovi alberi per mirare al riassorbimento della CO2 già in essere. E così oltre a firmare accordi di pace si deve pensare a costruire relazioni operativamente efficaci per favorire la ricostruzione complessiva di un reale mondo in convivenza pacifica.
Se i giovani alberi seminati dal pastore Elzéard Bouffier ricordavano per contrasto a Jean Giono le vite spezzate nelle drammatiche battaglie della prima guerra mondiale cui aveva partecipato in prima persona, oggi essi possono rappresentare, in positivo e a buon diritto, le future generazioni: in un mondo diverso, in cui torni la speranza, come nella immaginaria cittadella inventata dall’autore francese, e che, con il trascorrere degli anni, «era ormai un posto dove si aveva voglia di abitare» (p. 39 ed. it.).
Il gesto dei due ambasciatori di Israele e del Bahrain di piantare insieme un albero a Roma ripercorre tradizioni antiche, rinnovate oggi nel quotidiano da tante iniziative: con l’indicazione “Semi di pace” si trovano innumerevoli progetti, associazioni, eventi che materialmente piantano alberi e rendono possibili incontri nel rispetto della memoria e nella necessità di guardare al futuro. Si pensi alla festa di Tu bi-Shevat, le cui origini si perdono nella notte dei tempi ma che è tutt’oggi vissuta e capita proprio dai bambini per il suo significato profondo, concreto, solidale, intrecciandosi con una rete di parallelismi transnazionali a livello globale. Si pensi anche all’Albero della vita, che nel cuore del deserto del Bahrain è luogo di incontro pacifico di persone di diverse comunità e fedi che vi si recano in pellegrinaggio: anche le sue origini misteriose sono difficili da rintracciare e un piccolo museo all’aperto racconta gli sforzi degli studiosi di botanica per capirne l’origine. Gli alberi dunque trasmettono messaggi, sono portatori di significati e di valori: e ci parlano della storia, così come esprimono il senso dell’incontro e della relazione.
L’albero piantato da Dror Eydar e Nasser Mohamed Yousef Al Belooshi rappresenta allora una bella storia possibile: quella di un incontro, vissuto sul suolo romano, e qui radicato, che porta nuova linfa e respiro ad un progetto di pace che è sotto gli occhi del mondo intero.