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    Parashà di Mishpatìm. Libero è chi non asservisce altri

     

    La prima mitzvà di questa parashà è quella del servo ebreo: “Quando acquisterai un servo ebreo lavorerà per sei anni e nel settimo anno uscirà libero senza obblighi” (Shemòt, 21:1).

    Rashì (Troyes, 1040-1105) spiega che la tragica situazione nella quale un ebreo poteva diventare servo poteva accadere quando non aveva da mangiare e offriva i suoi servizi  a un padrone ebreo, oppure nel caso in cui avesse rubato e non fosse in grado di restituire il maltolto.

    Quando il popolo entrò nella terra d’Israele sotto il comando di Yehoshùa’, ad ognuno venne assegnata una proprietà cosicché il popolo era costituito da uomini liberi ognuno con il suo podere agricolo. Poiché nel corso delle vicende umane la fortuna cambia, la Torà provvede per coloro che sono meno fortunati. Il servo ebreo poteva pagare i debiti con il lavoro e tornare libero dopo sei anni. Questo ideale non venne sempre realizzato. Al tempo del re Tzidkiyàhu, quando l’esercito dei babilonesi era alle porte, il navi Yirmeyàhu (Geremia, 34:8-11) trovò una situazione che richiedeva il suo intervento. L’evento è descritto nella haftarà di questa parashà: “Questa parola fu rivolta a Yirmeyàhu dall’Eterno, dopo che il re Tzidkiyàhu ebbe concluso un patto con tutto il popolo che si trovava a Gerusalemme, di proclamare la libertà, rimandando liberi ognuno il suo servo ebreo e la sua serva ebrea, così che nessuno costringesse più alla servitù un giudeo suo fratello. Tutti i capi e tutto il popolo, che avevano aderito al patto, acconsentirono a rimandare liberi ognuno il proprio servo e ognuno la propria serva, così da non costringerli più alla servitù: acconsentirono dunque e li rimandarono effettivamente; ma dopo si pentirono e ripresero i servi e le serve…”.

    R. David Feinstein (Belarus, 1929-2020, New York ) nel suo commento alla haftarà scrive che la nazione sarebbe stata libera dalla dominazione babilonese se avesse liberato i servi dopo sei anni come prescritto dalla Torà. La liberazione dei servi avvenne quando vi era il timore che Gerusalemme venisse espugnata dai babilonesi che la assediavano. Tuttavia quando l’esercito babilonese si ritirò perché l’esercito egiziano stava arrivando per difendere Gerusalemme, la grande paura passò e i padroni presero nuovamente possesso dei loro servi.  

    R. Meir Leibush Wisser detto Malbim (Ucraina, 1809-1879) adduce un altro motivo per  la liberazione temporanea dei servi. Il re Tzidkiyàhu temeva che i servi si sarebbero ribellati o avrebbero disertato e sarebbero passati dalla parte dei babilonesi (come avvenne qualche secolo più tardi con i Romani). I padroni commisero due peccati: la violazione del patto e l’asservimento di uomini liberi. Il risultato fu che invece della libertà della nazione, un anno dopo Gerusalemme fu espugnata dai babilonesi come aveva profetizzato il navì Yirmeyàhu. Infatti il capitolo termina con queste parole: “Ecco, io darò un ordine, dice l’Eterno, e li farò tornare [i babilonesi] verso questa città, la assedieranno, la prenderanno e la daranno alle fiamme e le città di Giuda le renderò desolate, senza abitanti”. Per non terminare la haftarà con questa cattiva notizia, sefarditi e ashkenaziti tornato indietro e leggono gli ultimi due versetti del capitolo precedente.

    Il minhàg degli italiani è diverso e invece di tornare indietro a leggere dal capitolo 33, proseguono con la lettura della prima parte del successivo capitolo 35. Nel Pentateuco pubblicato in epoca risorgimentale da r. Eliyahu Benamozegh (Livorno, 1823-1900), quest’ultimo alla fine del capitolo 34 inserì queste istruzioni: “E gli italiani non tornano indietro ma vanno avanti e dicono…”.  

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