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    Contro la dittatura comunista 50 anni fa moriva Jan Palach

    Lo scorso 16 gennaio sono
    passati cinquant’anni della morte di Jan Palach, lo studente di filosofia che a
    vent’anni si diede fuoco immolandosi per la libertà del suo Paese. Qualche mese
    prima, nella notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968, i carri armati sovietici
    entrarono a Praga dando inizio alla repressione e mettendo fine a quel
    “socialismo dal volto umano” e alla serie di riforme volute dal segretario del
    Partito Comunista cecoslovacco Alexander Dubcek. Esasperato dal totalitarismo, il
    giovane Palach meditò e portò a compimento un gesto di protesta volto a
    risvegliare il suo Paese dall’oppressione: nella tarda mattinata del 16 gennaio
    del 1969 uscì dal suo alloggio universitario nella periferia sud di Praga e si
    diresse verso il centro città. Nel tragitto imbucò tre lettere, comprò due
    secchi di plastica e li riempì di benzina nei pressi della stazione di Praga
    Centrale. Poi nel primo pomeriggio si diresse in Piazza San Venceslao, uno dei
    luoghi più trafficati della città, si tolse il cappotto, si cosparse di benzina
    e si diede fuoco iniziando a correre verso il centro della piazza. Fu urtato da
    un tram e cadde a terra. Lì fu soccorso da alcuni passanti che tentarono di
    spegnere le fiamme. Ancora cosciente fece in tempo a dire loro di andare a
    prendere la lettera rimasta nel suo cappotto steso a terra. Palach, che morì
    tre giorni dopo, aveva spedito tre copie della stessa lettera al leader
    studentesco di Praga, all’assemblea della Facoltà di lettere e filosofia e a un
    compagno di studi a cui era legato. “Io sono il primo a cui tocca l’onore di
    eseguire la nostra decisione – scrisse. Sono il primo che ha avuto l’onore di
    scrivere la lettera, e sono anche la prima torcia. La richiesta principale è
    l’abolizione della censura: se questa richiesta non sarà rispettata entro
    cinque giorni, vale a dire entro il 21 gennaio 1969, e se la gente non
    dimostrerà appoggio alla nostra azione, altre torce umane mi seguiranno”. Le lettere
    erano firmate Torcia umana n°1.
    Palach, durante i suoi tre giorni di agonia in ospedale, rimase sempre
    cosciente e chiese costantemente quanto si parlasse del suo gesto e quali erano
    state le reazioni, se insomma quello che aveva fatto avesse scosso le
    coscienze. Si dice anche, ma di questo non ci sono prove certe, che avesse
    detto sul letto di morte che nessuno seguisse il suo esempio, che non ci
    fossero altre torce umane. Al suo gesto invece 
    ne seguirono altri, di altri giovani. Ai suo funerali a Praga
    parteciparono quasi mezzo milione di persone e da quel giorno si diffusero
    nella capitale una serie di manifestazioni spontanee anti regime.
    L’auto-immolazione come forma di protesta politica nei paesi del blocco
    sovietico si ispirava molto probabilmente ai monaci buddisti, le cui gesta
    erano state spesso commemorate dalla propaganda comunista che le descriveva
    come atti di protesta contro l’imperialismo americano. Un gesto che si
    differenzia molto rispetto al terrorismo perpetuato dall’uomo bomba dei giorni
    nostri che fa uso del proprio corpo come strumento di morte, per uccidere gli
    altri. Il corpo di Palach non si sacrifica al culto della morte ma, pur nel suo
     innegabile estremismo, rivendica libertà
    e vita, l’inammissibilità di sottomettersi al regime del terrore.
     

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