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    La contrapposizione delle idee che si trasforma in odio

    La parola chiave della cronaca politica di questi ultimi anni è “polarizzazione”. Tanto negli Stati Uniti quanto in Italia e in Israele molti intellettuali e  giornalisti attribuiscono la crisi evidente del sistema politico alla divisione della società in due blocchi contrapposti che non dialogano e non si tollerano, sono per l’appunto “polarizzati”. E’ difficile negare questa situazione. La Lega e il Pd in Italia, i sostenitori di Trump e quelli del Black Lives Matter, i membri del Likud e i manifestanti contro Netanyahu: non solo non si parlano ma si disprezzano a vicenda. Ma è sbagliato pensare che questa sia una novità. In Italia per decenni la sinistra del Pci e la destra sono stati al limite dello scontro fisico; in Israele finché Ben Gurion ebbe il potere di impedirlo perfino la salma di Jabotinski non fu ammessa nel paese e certamente la scelta di Sharon di sgomberare gli insediamenti ebraici a Gaza fu più divisiva delle politiche attuali. Pure, noi oggi parliamo dalla polarizzazione come una novità e lo facciamo per diverse ragioni. Una è il fatto che le contrapposizioni dominano di nuovo dopo una parentesi di omogeneizzazione e collaborazione fra destra e sinistra, che nei vari paesi ha avuto tempi diversi ma c’è stata dappertutto. Un’altra è il fatto che i social media hanno permesso una diffusione ai singoli del protagonismo politico (non necessariamente dell’attivismo) e dunque l’emergere dei conflitti. Ma la ragione principale è che essa segna la rottura dell’egemonia di un consenso (possiamo etichettarlo per capirci “globalista”, ma esso riguarda anche il genere, l’immigrazione, le istituzioni internazionali, il potere della magistratura, ecc.) che è ancora quasi unanime nelle redazioni dei giornali, nelle università, ai vertici delle Chiese, nelle grandi tecnostrutture. Eppure questo modo di sentire è rifiutato da una buona parte dell’elettorato. Come mostrano sia i risultati elettorali sia la diffusione dei media, giornalisti e politici “benpensanti” hanno perso la loro capacità di convinzione su argomenti e valori che pure considerano basilari. Essi dunque odiano e deplorano  le “chiacchiere” e le “fake news” dei social media (ma in realtà si tratta di valori alternativi, non di notizie false). Qualche volta arrivano a sostenere che sia sbagliato far votare anche gli “ignoranti”, i “deplorevoli”. Disprezzano i leader “maleducati” emersi da questo “populismo”: i Netanyahu, i Trump, i Salvini. E sono ricambiati di pari moneta da parte dei loro sostenitori. È difficile dire se e quando sarà superata questa scissione. Ma già capire che si tratta di una perdita dell’egemonia tradizionale da parte di un ceto politico e intellettuale che difende valori e interessi opposti a quelli ritenuti vitali dagli elettori “populisti” può aiutare a riannodare una dialettica politica che oggi si affida prevalentemente alla giustizia, se non per fortuna (ancora) alla violenza.

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