Skip to main content

Ultimo numero Novembre – Dicembre 2024

Scarica il Lunario 5785

Contatti

Lungotevere Raffaello Sanzio 14

00153 Roma

Tel. 0687450205

redazione@shalom.it

Le condizioni per l’utilizzo di testi, foto e illustrazioni coperti da copyright sono concordate con i detentori prima della pubblicazione. Qualora non fosse stato possibile, Shalom si dichiara disposta a riconoscerne il giusto compenso.
Abbonati







    Commento alla Torà. Parashà di Shofetìm: non è l’abito che fa il giudice

    di Donato
    Grosser

    Questa parashà si apre con la mitzvà di organizzare un sistema
    giudiziario con queste parole: “Nominerai giudici e polizia per le tue tribù in
    tutte le porte [delle città] che l’Eterno, tuo Dio, ti dà, assicurando che
    amministreranno la giustizia del popolo in modo onesto. Non dovrai alterare il
    diritto, mostrare favoritismi e farti corrompere perché la corruzione acceca
    gli occhi dei saggi e falsifica le parole dei giusti. Cerca la vera giustizia
    affinché tu viva e occupi il paese che l’Eterno, tuo Dio, ti dà. Non pianterai
    alcuna Asherà o qualunque altro albero, al lato dell’altare che
    edificherai per l’Eterno tuo Dio” (Devarìm,
    16:18-22).

    Il Maimonide (Cordova, 1138-1204, Il Cairo)
    nella Guida degli Smarriti (3:35) scrive che l’utilità di nominare giudici è
    evidente, perché se i criminali non venissero puniti sarebbe impossibile
    evitare i crimini e non vi sarebbe alcun deterrente al crimine.

    R. Moshè Alshich (Adrianopoli, 1508-1593, Safed)
    nel commento Toràt Moshè osserva che
    i primi tre versetti si rivolgono a diverse persone: “Nominerai giudici” è un
    ordine ai governanti che sono responsabili della nomina dei giudici e della
    polizia. “Non dovrai alterare il diritto…” è un avvertimento ai giudici. E
    “Cerca la vera giustizia” è un consiglio al popolo di cercare di rivolgersi ai
    tribunali migliori. Apparentemente riguardo a questo versetto R. Alshich si
    riferisce all’insegnamento dei maestri che nel Talmud babilonese (Sanhedrin,
    32b) affermano: “Cerca la vera giustizia, cioè rivolgiti al bet din (tribunale) migliore”.

    L’ultimo
    versetto ordina di non piantare alcuna Asherà. R. Eliyahu Benamozegh (Livorno, 1823-1900) in Em La-Mikrà (Devarìm,
    67b), citando il commento delle Tosafòt
    alla Torà, menziona che era uso degli idolatri piantare un albero di culto (Asherà)
    vicino all’altare del Ba’al come raccontato nel libro dei Shofetìm (Giudici, 6: 25-28) quando
    Gid’on (Gedeone) distrusse l’altare del Ba’al e tagliò la Asherà.
    Riguardo al termine Asherà R. Benamozegh scrive che è il nome della dea
    Astarte che poi venne trasmesso anche all’albero di culto.

    Rashì (Francia, 1040-1105) nel suo commento scrive che questo
    versetto viene a proibire di piantare alberi o anche a costruire edifici sul
    Monte del Bet ha-Mikdàsh.

    I maestri del
    Talmud affermano che la giustapposizione di due versetti nella Torà non è una
    coincidenza e viene ad aggiungere in modo implicito degli insegnamenti. In
    questo caso la vicinanza del versetto che proibisce di piantare alberi nel Bet ha-Mikdàsh ai versetti precedenti
    che trattano della nomina di giudici viene spiegata in questo modo: “Non
    pianterai alcuna Asherà. R. Shim’on ben Lakish disse (Sanhedrin, 7b):
    chi nomina un giudice che non è “hagùn”
    (rispettabile, degno) è come se avesse piantato una Asherà in Israele,
    perché è detto “Nominerai giudici e polizia” e a questo versetto è giustapposto
    quello che dice “Non pianterai una Asherà”.

              R.
    Joseph Beer Soloveichik (Belarus, 1903-1993, Boston) in Mesoras Harav (Devarìm, p. 143) cita il nonno R.
    Chaim Soloveitichik (Belarus, 1853-1918, Polonia) che commentò che un
    giudice incompetente è paragonato proprio ad una Asherà perché mentre i
    santuari idolatrici sono generalmente identificabili, la Asherà appare
    come un albero normale. Di fuori è bello e rigoglioso, ma essenzialmente è
    marcio. Lo stesso vale per un giudice che appare dotato dei requisiti necessari
    ma in effetti è incompetente. A colui che giudica in modo giusto viene data
    l’autorità straordinaria di agire al posto del Giudice Divino. In realtà nessun
    essere umano è capace o ha il diritto di decidere la sorte di un altro perché
    non conosce la verità assoluta. Il “dayan”
    (giudice) è anche chiamato “elohim”
    (che scritto con la maiuscola significa “Dio”) perché per necessità ha ricevuto
    una prerogativa divina. Di conseguenza se un giudice umano è incompetente ha in
    effetti usurpato e profanato l’autorità divina. E questo è simile
    all’idolatria. In modo figurativo costui ha piantato un santuario idolatrico proprio
    nello stesso posto che era stato permeato con la giustizia divina, vicino al mizbèach del Bet ha-Mikdàsh

    CONDIVIDI SU: