Il passo della Torà più conosciuto, recitato due volte al giorno e quindi facilmente imparato a memoria, è lo Shemà’ dove viene insegnato che l’Eterno è uno ed unico. In questo passo viene elencata la mitzvà di insegnare la Torà ai nostri figli con queste parole: “Queste parole che io ti comando oggi devono rimanere sul tuo cuore; insegnale ai tuoi figli e parlane con loro stando nella tua casa, camminando per la via, quando ti coricherai e quando ti alzerai (Devarìm, 6:6-7).
R. ‘Ovadià Sforno (Cesena, 1475-1550, Bologna) commenta: “Insegnale ai tuoi figli” Insegna loro in modo continuo e con acume perché con la continua ripetizione le ricorderete per sempre”.
L’autore catalano del Sèfer Ha-Chinùkh (XIII secolo e.v.) che elenca le 613 mitzvòt della Torà scrive: “È una mitzvà prescrittiva (cioè una cosa da fare) quella di studiare la sapienza della Torà e di insegnarla” […] perché studiandola le persone conosceranno le vie dell’Eterno senza le quali rimarrebbero senza conoscenza e senza comprensione e considerati alla stregua di animali…”. (Si sente l’eco di queste parole nelle rime dantesche scritte qualche decennio più tardi: “Fatti non foste per viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza”).
Rashì (Francia, 1040-1105) nel suo commento, citando i maestri nel Midrash Sifrè, scrive: “Ai tuoi figli” significa “ai tuoi discepoli”; infatti troviamo che i discepoli vengono chiamati ovunque “figli”, come per esempio “voi siete figli dell’Eterno vostro Dio”; in modo analogo il maestro viene chiamato “padre”, come è detto riguardo al navì (profeta) Elia che venne chiamato dal suo discepolo Elishà’ (Eliseo) “Padre mio, padre mio, carro d’Israele e suo cavaliere” (I Melakhìm, 2:12).
Il Maimonide (Cordova, 1138-1204, Il Cairo) nel Mishnè Torà (Hilkhòt Talmud Torà, 1:2) scrive che è obbligo insegnare Torà ai figli, ai nipoti e anche ai figli degli altri perché appunto quando la Torà usa la parola “figli” intende anche i discepoli. I figli tuttavia hanno la precedenza nei confronti dei nipoti e dei figli degli altri.
R. Moshè Feinstein (Belarus, 1895-1986, New York) in Daràsh Moshè si domanda per quale motivo la Torà usa la parola “padre” per definire il maestro. A questo proposito egli cita il Talmud babilonese (Trattato Bavà Metzià, 33a) dove è insegnato che il grado del maestro di Torà è superiore a quello del padre “perché il padre lo ha portato a questo mondo, mentre il maestro che gli insegnato la sapienza [della Torà] gli ha aperto il mondo futuro”. Se il maestro è più importante del padre, per quale motivo viene chiamato “padre” e non “maestro”? R. Feinstein spiega che il padre conferisce naturalmente al figlio bellezza, forza, ricchezza e intelligenza. La Torà ci insegna che il maestro deve far si che i suoi discepoli diventino come lui, in modo analogo come avviene tra padre e figlio, solo che in questo caso il maestro deve influenzare il carattere e il comportamento dei discepoli.
Rav Joseph Beer Soloveitchik (Belarus, 1903-1993) in Mesoras Harav (Devarìm, p. 57) scrive che l’educazione è “creatività per eccellenza”. Con l’educazione un bambino “senza forma e senza direzione” viene trasformato in un saggio di Torà. Un bambino senza disciplina e senza identità, un mondo vuoto e desolato (tohu va-vohu), viene gradualmente trasformato in una personalità spirituale. Introducendo un bambino ai racconti di Avrahàm e di Sara e poi man mano alle trattazioni talmudiche si foggia un’anima, e non vi è opera di creazione superiore a questa. L’educazione di Torà è la dimensione spirituale della paternità, ed è simile alla creazione divina perché anche l’Eterno è chiamato “L’insegnante del Suo popolo Israele”.
Donato Grosser