Skip to main content

Ultimo numero Novembre – Dicembre 2024

Scarica il Lunario 5785

Contatti

Lungotevere Raffaello Sanzio 14

00153 Roma

Tel. 0687450205

redazione@shalom.it

Le condizioni per l’utilizzo di testi, foto e illustrazioni coperti da copyright sono concordate con i detentori prima della pubblicazione. Qualora non fosse stato possibile, Shalom si dichiara disposta a riconoscerne il giusto compenso.
Abbonati







    Commento alla Torà. Parashà di Devarìm: quando i tribunali non possono più mantenere l’ordine

    In questa parashà Moshè ricorda ai giudici che è loro dovere giudicare il popolo con queste parole: “In quel tempo ordinai ai vostri giudici dicendo: Ascoltate le questioni che sorgeranno  tra i vostri fratelli e giudicate con giustizia tra un uomo e suo fratello o uno straniero che sta con lui.  Nei vostri giudizi non avrete riguardi personali; darete ascolto al piccolo e al grande; non abbiate paura degli uomini perché la giustizia appartiene a Dio; la causa che è troppo difficile per voi la sottoporrete a me e io la ascolterò” (Devarìm, 1:16-17).

    Nel primo capitolo del trattato Sanhedrin è scritto che vi erano tre tipi di batè din (tribunali): il primo era il bet din composto da tre dayanìm (giudici) che trattava questioni pecuniarie; il secondo era quello di ventitré dayanìm che si occupava dei crimini per i quali poteva essere comminata la pena capitale. Il terzo era il Sanhedrin (Sinedrio) di settantuno dayanìm che nominava il Re, giudicava le tribù, i falsi profeti e i kohanìm ghedolìm, e doveva dare il consenso al Re quando voleva iniziare una guerra non comandata dalla Torà.

    Nel trattato ‘Avodà Zarà (8b) i maestri insegnano che il Sinedrio andò “in esilio” quaranta anni prima della distruzione del Bet Ha-Mikdàsh (il Santuario di Gerusalemme). Per “esilio” il Talmud intende una locazione al di fuori di quella prevista per il Sinedrio, la cui sede era la sala delle pietre squadrate (lishkàt ha-gazìt) che si trovava nella parte settentrionale del cortile del Bet Ha-Mikdàsh. Il motivo per questo spostamento fu per fare sì che i tribunali non dovessero più giudicare gli assassini che erano diventati troppo numerosi. Infatti la pena capitale poteva essere comminata solo quando il Bet Ha-Mikdàsh era in esistenza e il sinedrio era nella lishkàt ha-gazìt (Mishnè Torà, Hilkhòt Sanhedrin, 14:11).

    R. Yosef Shalom Elyashiv (Lituania, 1910-2012, Gerusalemme) nelle sue lezioni sul Talmud babilonese (Ketubbòt, 30a e Rosh Hashanà, 31a) si chiede per quale motivo proprio quando gli assassini divennero più numerosi i maestri decisero di cessare di giudicarli. Al contrario sarebbe stato più logico giudicarli al fine di togliere di mezzo i criminali. R. Elyashiv risponde a questa domanda spiegando che per poter condannare a morte gli assassini i requisiti sono molto rigorosi:  sono necessari due testimoni incensurati che siano presenti al fatto e che avvertano colui che sta per commettere il crimine, che il suo crimine lo espone alla condanna a morte e il criminale deve rispondere che lo sa bene e lo fa ugualmente. Inoltre i maestri insegnano che un bet din (tribunale) che condannava qualcuno a morte più di una volta ogni settant’anni era considerato un tribunale micidiale.

    È evidente che la pena di morte serviva da deterrente quando la società viveva in condizioni pacifiche e di fatto non veniva eseguita altro che in casi estremamente rari. Nel periodo che precedette la distruzione del Bet Ha-Mikdàsh, il disordine sociale imperava e aumentò il numero dei criminali che commettevano omicidi. Utilizzare i tribunali per giudicare gli assassini non sarebbe stato di alcuna utilità perché, dati i requisiti necessari per condannarli, in pratica gli assassini sarebbero usciti liberi dai tribunali per insufficienza di prove.    

    Se i batè din avevano queste limitazioni nel giudicare le pene capitali, il Re aveva invece molta più libertà nel condannare i criminali anche senza prove definitive e senza che i criminali fossero stati diffidati. Infatti il Maimonide, citando il Talmud di Eretz Israel, scrive: “Nei casi in cui qualcuno commetta un omicidio senza che vi siano chiare prove [del crimine], o senza diffida, anche con un solo testimone […] il Re ha la facoltà di metterlo a morte al fine di mantenere l’ordine nel mondo secondo quando necessario in quel frangente […] (Mishnè Torà, Hilkhòt Melakhìm, 3:10). Quando il sinedrio vedeva che il sistema giudiziario non sarebbe più servito a restaurare l’ordine nella società e, al contrario, gli assassini sarebbero usciti liberi dai  tribunali, divenne necessario cessare di giudicare le pene capitali e lasciare al Re il compito di mantenere l’ordine nella società.  

    (L’illustrazione del Sanhedrin e’ presa da una stampa del 1883)

    Donato Grosser

    CONDIVIDI SU: