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    SCUOLE PARITARIE: PER DIFENDERE UN’IDENTITÀ CULTURALE E RELIGIOSA

    Come sempre nelle cose ebraiche, bisogna partire da lontano. Non molto, in questo caso. Era il giorno 8 marzo 1989. Si approdò in un mondo nuovo, meglio conforme al dettato costituzionale della Repubblica Italiana. Norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e l’Unione delle Comunità ebraiche Italiane: il quadro giuridico trovò la propria definitiva sistemazione con la legge 630 del 1996. Ci furono conseguenze importanti, e forse non immediatamente percepite. Le nostre comunità diventavano “Enti senza scopo di lucro”. I dipendenti e anche l’istruzione entravano nel mondo del libero mercato. Di fatto si aderiva, per la gestione delle nostre scuole, ai modelli vigenti nelle strutture educative dette “paritarie”. Non è questo il momento per avviare analisi politiche sociologiche. Tuttavia la peculiarità e la specificità della differenza ebraica si sono forse, col trascorrere del tempo, appannate e diluite sia agli occhi dell’opinione pubblica nazionale che dei governanti. Si mandano i giovani nelle paritarie per motivi di praticità oppure per la tutela dei valori religiosi tradizionali, che in Italia sono naturalmente quelli cattolici. E qui, ancora più indietro nel tempo, si va al capitolo decisivo della vicenda. 

    E’ il 26 dicembre del 1922: il filosofo Giovanni Gentile, Ministro della Pubblica Istruzione, dichiara l’intenzione di stabilire sulla religione cattolica e sull’insegnamento di essa la base fondamentale “del sistema della educazione pubblica e di tutta la restaurazione morale dello spirito italiano”. Gli ebrei italiani usufruivano largamente e con profitto delle strutture educative nazionali, che andavano crescendo, anno dopo anno, in qualità e prestigio. L’educazione religiosa dei giovani era affidata alle ore pomeridiane dei Talmud Torà, istituiti ovunque ci fosse una collettività ebraica. 

    Ma già nel 1925, con la fondazione di una scuola elementare, la Comunità cominciò a dotarsi di valide strutture per l’educazione primaria. Neanche i rabbini più autorevoli riuscirono a trovare qualche ragione di compiacimento. L’istruzione rigorosamente laica che il Regno d’Italia aveva garantito divenne ben presto un ricordo. “Laico” sta naturalmente per “non cattolico”. 

    Poi le leggi razziste antiebraiche del 1938 mutarono di nuovo, e crudelmente, le regole della partita. Studenti e professori ebrei furono espulsi dalle scuole di ogni ordine e grado, e dalle università. Si dovevano trovare soluzioni d’emergenza. In poche settimane, e con scarsi mezzi finanziari, dopo la rovina economica cui la legge del 1938 esplicitamente condannava gli ebrei d’Italia, nacquero il Ginnasio Inferiore e Superiore, e poi i Licei e gli Istituti Magistrali. Già con l’anno scolastico 1938-39, per il corpo insegnante si utilizzarono professori famosi nel mondo: erano stati cacciati da tutte, ma proprio tutte, le università italiane, anche le più prestigiose. 

    Passata la tempesta, dopo il 1945 si cominciò a ragionare sul senso e sul futuro delle scuole nelle comunità ebraiche d’Italia. Occorreva prima di tutto difendere un’identità minoritaria, esposta alla pressione religiosa e ideologica della cultura dominante. Lentamente, gradualmente, nel mondo ebraico prese a svilupparsi un movimento di ritorno all’identità nella tradizione. Dai giardini d’infanzia fino alle Università dei Littoriali, bambini e bambine, ragazzi e ragazze – spesso i primi e le prime della classe – erano stati allontanati, e senza un attimo di esitazione. Si doveva dare un senso nuovamente accettabile ad una tradizione e ad un’appartenenza che sembravano aver precipitato ogni singolo individuo nella notte e nella nebbia di un odio antiebraico mai sperimentato in precedenza. Occorreva costruire personalità non condizionate dai traumi dei genitori. Insomma, un ebraismo anche propositivo, tranquillizzante, appagante. 

    Negli anni dell’immediato dopoguerra, dunque, bambini e bambine ricevevano alle elementari il primo imprinting: nozioni di lingua, storia e cultura ebraiche, ben inserite in un percorso di introduzione ai valori della cultura nazionale e di preparazione alla cittadinanza attiva che si sarebbe completato con la scuola media inferiore. 

    La conservazione dell’identità ebraica è dunque affidata quasi esclusivamente alle nostre scuole. L’educazione religiosa infatti è a carico di quanti intendano, giustamente, provvedervi. 

    La formazione dei giovani costituisce il principale capitolo di spesa per ogni gruppo di ebrei che voglia continuare a definirsi tale, soprattutto nelle diaspore. Ciascuno deve trovarsi in parità di mezzi nel confronto con un mondo attento alle capacità individuali, che non intende sciupare risorse, che non perdona errori. Anche per gli ebrei, se non si accetta l’idea che sia l’istruzione la vera garanzia per il futuro di ogni collettività, non ci sarà un futuro, quale che sia. 

    In tutto il mondo ebraico le scuole costituiscono la base di ogni buona e corretta amministrazione. “Sarebbe preferibile chiudere una sinagoga piuttosto che una scuola”: regola antica, continuamente ricordata e ripetuta. Senza scuola non c’è identità. A Roma, inoltre, esistono situazioni assolutamente specifiche. Qui la Comunità appare caratterizzata da una presenza importante di ceti popolari. 

    La nascita del Liceo Renzo Levi, nel 1973, ha consentito l’accesso alle professioni per molti ragazzi e ragazze. Si sono visti successi straordinari, un tempo riservati solo alla buona borghesia. Abbiamo saputo apprezzarli e valorizzarli. Fortunatamente siamo creativi. Siamo capaci di attraversare il deserto, alla fine ci sarà il meglio. 

    La crisi economica sembra solo un aspetto di trasformazioni impreviste e imprevedibili indotte da Covid. I giovani e le famiglie sono preoccupati, temono il futuro e vorrebbero certezze. Le nostre scuole hanno di fronte una mission molto difficile. Fallire non è un’opzione. Però avremo bisogno di aiuto. 

    La tutela anche economica delle nostre scuole deve essere una priorità per la Repubblica. La differenza ebraica non chiede privilegi rispetto alla molteplicità delle differenze che fanno e hanno fatto la società italiana. Però costituisce un valore aggiunto per la storia e per la stessa concezione del mondo che sono il fondamento del nostro paese. E ciò deve essere manifestato con chiarezza in ogni sede istituzionale. Certo, quella di Roma è una comunità ebraica resiliente. Resilienza, resiliente. Sono in molti a pensare che siano termini arrivati dalla dilagante moda dell’inglese. Invece no, sono parole antiche. Antiche quanto la presenza ebraica in questa città, come spiegano i lessicologi dell’Accademia della Crusca. Infatti il verbo latino resilire indicava un subitaneo ritrarsi con il successivo rimbalzo, ove possibile. E così già tre secoli fa si definiva resilienza la caratteristica di un solido che assorbe gli urti improvvisi senza spezzarsi, per poi reagire con forte energia. E dunque sì, siamo resilienti. La nostra storia sta a dimostrarlo. Il lockdown, ovvero il confinamento degli ebrei romani è durato infatti 315 anni, gli anni del ghetto: dal 1555 al 20 settembre del 1870. Tuttavia con il Papa Re si poteva trattare. Col virus non si tratta, non può trattare nessuno. Abbiamo obbedito alle regole che ci ha imposto. La città è stata colpita con durezza estrema. Deve inventare qualcosa per fare in modo che la ferita non sia mortale, poiché ha vissuto e prosperato dentro una struttura di ricchezza vulnerabile: fondata sul turismo e sulla proprietà immobiliare che lo sostiene, cioè alberghi e case vacanze. Meetings e convegni, fiere e passerelle resteranno sul web. Il telelavoro (impropriamente detto smart, furbo e agile) è troppo conveniente per chi lo distribuisce. Toglierà occasioni di vendite e acquisti, consolidando la distribuzione sulle piattaforme informatiche. 

    Gli ebrei romani si preparano a un futuro economicamente molto difficile. In attesa che si riparta, altro termine molto discutibile, le categorie esposte non sono soltanto quelle dei venditori ambulanti e degli urtisti, delle guide turistiche e dei taxi. I turisti torneranno, ma in numeri e modi diversi. Usciti dall’arca dopo il diluvio, non ci saranno occasioni di ripartenza nel senso che gli ottimisti incorreggibili tentano di immaginare. L’ottimismo della volontà fa bene alle anime, ma il realismo permette di sopravvivere. Gli ebrei romani si adatteranno a qualcosa di assolutamente nuovo sotto il profilo, appunto, della resilienza del proprio lavoro e delle strutture economiche necessarie al sostentamento, sia come individui e famiglie che come collettività. E lo Stato dovrà in qualche modo intervenire. Non si tratta di saldare vecchi debiti, bensì di progettare il futuro di tutti in un mondo che non sarà più quello che tutti abbiamo conosciuto prima dell’asteroide. Scusate, si intende Covid19. Non finiremo come i dinosauri.

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