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    Informazione e mass media. Il dovere di verificare le fonti

    I libri di Alain Gresh, già direttore del prestigioso Le Monde Diplomatique, riguardanti il conflitto arabo-israeliano si trovano sovente anche in versione italiana, a cura anche di importanti case editrici, fra le quali spicca Einaudi. Ne discorriamo perché nei licei questi libri circolano, com’è giusto che sia, ma non è meno giusto che si possa verificarne la puntualità.

    Fra la sua produzione, troviamo il volume di Alain Gresh, Dominique Vidal , The new A-Z of the Middle East, Tauris, London, 2004, dove troviamo una cronologia che reca questa indicazione: “1951 October  Israel rejects the Un Peace plan proposed by Egypt, Syria, Lebanon and Jordan”. Sennonché, in un volume collettaneo, tutt’altro che favorevole ad Israele, curato da Malcolm H. Kerr, The elusive peace in the Middle East, New York, 1975, che contiene tutti i dettagli delle trattative fra Israele e gli Stati arabi, non emerge affatto questa generosa conclusione, bensì un comune disaccordo. Infatti, nel capitolo del suddetto volume, scritto da Fred H. Koury, intitolato United Nations Peace Efforts, (p. 43 ss.) sulla Conferenza di Parigi del 1951 emerge, tutt’al più, l’esistenza di posizioni diverse fra Israele ed i Paesi Arabi, non certo l’esistenza di un nucleo di Paesi irenisti contrapposti ad un Israele bellicista. Dall’inizio, la narrazione di Gresh e Vidal dell’invasione degli eserciti dei Paesi arabi per distruggere il neonato Stato d’Israele tende a sfumare: si spiega al lettore che c’era una guerra civile e che gli eserciti di cinque Paesi arabi sono “entrati “ – quasi che fosse una puntata turistica – ma che Israele ha vinto “aiutato in particolare dalla Cecoslovacchia”, senza spiegare in cosa consistesse l’aiuto. Avranno avuto le loro ragioni per non farlo, perché l’invio di armi agli ebrei non equivale all’invasione di cinque Paesi arabi. Fra l’altro, non si capisce perché Gresh e Vidal non citino Kerr, trattandosi di un accademico importante che aveva svolto ruoli di rilievo in Libano. Quanto a Kerr, la sua strenua ricerca di equidistanza non gli è valsa per aver salva la vita, essendo stato ucciso, purtroppo, in un attentato jihadista a Beirut nel 1984. Nella cronologia del predetto libro, alla voce “1967”, Gresh e Vidal scrivono: “Israele attacca Egitto, Siria e Giordania”, come se Levi Eshkol posseduto da qualche spiritello maligno, quel 5 di giugno, incerto fra una colazione sontuosa ed un attacco a cinque Paesi arabi, avesse optato per la seconda soluzione.

    Sia Vidal che Gresh, bravi tutti e due, sono in qualche modo figli d’arte, perché Vidal è figlio di un superstite di Auschwitz, il rinomato cattedratico Haim Vidal Sephiha, mentre Gresh è figlio naturale di Henri Curiel, un importante militante comunista di origini sefardite, assassinato a Parigi nel 1978. Essendo sia Gresh che Vidal dei famosi esperti, e poiché non è poca cosa essere giornalisti di punta di Le Monde, questa loro, diciamo, impostazione dovrebbe dare adito a qualche riflessione. Per esempio, sono migliori i giornalisti ricchi e famosi di Le Monde oppure quegli sgarrupati, gratuiti e dilettanti della stampa ebraica? Sicuramente i primi, ma non sempre, perché la regola che voglio proporre per l’editoria (libri, giornali, riviste) consiste nel mettere in risalto il ruolo prevalente del contenitore rispetto al contenuto, in quanto una sciocchezza scritta sul New York Times (vedi E. Calò, Infortuni giornalistici, Moked, Idee, 15 gennaio 2019) diventa un prezioso spunto di riflessione, riprodotta su un foglio di quartiere, si rivela per quello che ontologicamente è.

    A proposito della strage del Bataclan, (una sala parigina dove nel 2015 un commando collegato allo Stato islamico (Daesh) ha ucciso 130 persone e ferito 350) in un articolo pubblicato su Al Jazeera https://www.aljazeera.com/news/2015/11/paris-attacks-151114194600771.html si legge  che Alain Gresh, direttore della rivista francese Le Monde Diplomatique ha dichiarato ad Al Jazeera di aspettarsi che i critici iniziassero a parlare pubblicamente della politica estera francese dopo un giorno o due di lutto nazionale.

    Dal canto suo, Giulio Meotti (Il Foglio, 23 dicembre 2015) scrive “C’era anche Alain Gresh, l’ex direttore del Monde Diplomatique, che ha spiegato la strage al Bataclan con le politiche d’Israele: “A partire dal 2003, ci sono state tre guerre contro Gaza, il tutto giustificato dai governi di destra e sinistra. Questo ha creato ostilità contro la Francia”.

    Ciò posto, nemmeno vanno censurate le critiche e, in questo senso, desta perplessità la cennata reazione alla strage del Bataclan, per il salto logico che porta a collegare l’uccisione di gente che assisteva ad un concerto con la politica mediorientale. Tanto più che le vittime rappresentavano un caleidoscopio di nazionalità impressionante, che andava dall’Italia al Venezuela, dalla Tunisia all’Egitto. La giustificazione fornita dagli attentatori riguardava la “perversione” del concerto frequentato da “idolatri”, ossia, nemmeno agli assassini passava per la testa di collegare l’attentato cruento ad eventi mediorientali. D’altronde, chi compie attentati contro civili inermi non ha certamente bisogno di valide giustificazioni. I nazisti uccidevano gli ebrei, vecchi e giovani, uomini e donne, liquidando la questione in modo secco: “sono nemici”. Nemmeno faticavano tanto a sostenere le prove di una cospirazione; fatica sprecata: era sufficiente evocarla.

    Ne disquisisco perché se è sacrosanto che le idee circolino, comprese quelle che consideriamo contrarie ai nostri principi, al contempo, bisognerebbe saper distinguere fra le fonti, perché altrimenti tutto diventa attendibile. Tale attendibilità non può derivare dal nome, oppure soltanto dai titoli di chi scrive, ma dalla serietà del contesto che esprime. Non so se ci sia ancora chi dica” l’ho letto su Internet”, senza citare la fonte e senza accorgersi che dire di aver letto qualcosa sul web, senza indicare il sito, equivale a dire “l’ho letto sulla carta”.

    Intendiamo dedicare qualche futuro articolo alla letteratura che forma i giovani nelle scuole, nei licei e nelle università perché, se è bene che tutto circoli, non sembra altrettanto commendevole che si sia talvolta incapaci di una lettura critica. Il bellissimo libro di Alessandra Tarquini “La sinistra italiana e gli ebrei – Socialismo, sionismo e antisemitismo dal 1892 al 1992”, Il Mulino, 2020, che i nostri giovani dovrebbero assolutamente leggere, è significativo sia per chi cita sia per chi non cita, in ispecie laddove non fa riferimento a qualche autore minore, di cui sono maggiori le pretese e gli sponsor del contributo che reca. Se fai un lavoro serio, insomma, evochi le fonti affidabili perché altrimenti le spese della tua presunta generosità le farà l’incolpevole lettore. In cosa consiste, peraltro, l’operazione intellettuale se non nel distinguere, così come nel risalire da un fatto noto ad un altro da decifrare, sempre nel rispetto della logica e, se permettete, del buon senso?

    Perché altrimenti, dovremmo domandarci quale senso abbia promuovere i viaggi degli studenti ad Auschwitz se poi costoro dovessero concludere che gli ebrei fanno ai palestinesi ciò che i nazisti fecero loro. Se così stessero le cose, sarebbe meglio limitarsi a mete più vicine, magari nel perimetro dell’isolato. Perché lo scopo dell’insegnamento consiste nell’invitare ad informarsi sentendo tutte le voci, a non agire per luoghi comuni ed a sviluppare il pensiero critico, sperando che il suo esito sia quello di rendere il mondo più vivibile. Per alcuni sarà un modesto traguardo ma, per chi è abituato ad essere vittima dell’odio, potrebbe trattarsi di un obiettivo grandioso.

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