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    Commento alla Torà. Parashà di Sheminì: a cosa serve mangiare cibo kasher?

    Questa parashà  tratta l’argomento degli animali che sono kasher e quindi adatti ad essere consumati e quelli che non lo sono e la loro consumazione è proibita. Animali non kasher sono, tra gli altri, i suini, il cammello, la lepre e il coniglio; gli uccelli rapaci e i pesci senza pinne e squame.

    La parashà si conclude con le seguenti parole: “Poiché io sono l’Eterno, che vi ho fatti salire dal paese d’Egitto, per essere il vostro Dio; siate dunque kedoshìm, perché io sono kadòsh. Questa è la legge che riguarda i quadrupedi, gli uccelli, ogni essere vivente che si muove nelle acque e ogni essere che striscia per terra, per distinguere ciò che è impuro da ciò che è puro, e tra gli animali che si possono mangiare da quelli che non si devono mangiare».” (Vaykrà, 11:45:47).

    Una domanda che ci si pone è per quale motivo la Torà parli di kedushà quando elenca gli animali la cui consumazione è proibita. Kedushà (una parola tradotta in modo non molto preciso con santità in italiano) è da alcuni definita come “La separazione del comportamento umano dal mondo materiale a quello spirituale e la sua elevazione”.

    R. ‘Ovadià Sforno (Cesena, 1475-1550, Bologna) commenta che l’Eterno desidera che Israele sia un popolo kadòsh e che imiti il comportamento del Creatore. Uno dei mezzi per ottenere la kedushà è di evitare di consumare animali che non sono kasher. Ed è per questo scopo che ci ha fatto salire dall’Egitto.

    Rashì (Troyes, 1040-1105) commenta le parole “Poiché io sono l’Eterno, che vi ho fatti salire dal paese d’Egitto”, dicendo: “Vi ho fatto salire allo scopo che accettiate le mie mitzvòt. E il motivo per cui [in questo versetto] viene usata l’espressione «Vi ho fatto salire» e non «Vi ho fatto uscire» come in altri passi [della Torà], viene spiegato da un maestro della scuola di R. Yishma’el. «[L’Eterno disse]: Se non fosse stato altro che ho fatto salire gli israeliti dall’Egitto solo perché non si rendano impuri consumando esseri striscianti come fanno le altre nazioni, sarebbe stato sufficiente. Per loro è un’elevazione e per questo è usata la parola salire»”.

    R. Joseph Beer Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston) in Mesoras Harav (Vol. 3, pp. 74-75) commenta: “È interessante notare che nella Torà vi è un solo versetto che menziona la tefillà, la preghiera (Devarìm, 11:13), ma vi sono molti capitoli che trattano dell’argomento delle leggi dietetiche. Per gli esseri umani è più facile pregare che astenersi dai cibi che desidera. L’uomo è disposto a servire Dio spiritualmente ma risente ogni interferenza con le sue abitudini alimentari o nel modo in cui egli soddisfa i suoi bisogni fisici […]. La Torà insegna invece che è impossibile santificare e ispirare lo spirito senza disciplinare il corpo. Queste mitzvòt appartengono alla categoria della disciplina del corpo e la sua santificazione. Viene proibita l’eccessiva indulgenza nel soddisfare i bisogni e gli istinti fisici. La Torà non respinge il corpo. Corpo e anima sono entrambi parte dell’uomo. Ma il corpo non dev’essere quello di un selvaggio. Deve avere disciplina, in grado di astenersi da certe azioni […] e dev’essere santificato ed elevato. Siamo sopravvissuti per quasi duemila anni senza il Bet Ha-Mikdàsh, e la sua assenza non ha avuto effetto nei confronti dell’integrità del nostro popolo. Se invece la comunità ebraica rigettasse la kasherùt diventerebbe assimilata in poche generazioni.  

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