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    Coronavirus: le diverse strategie dei paesi e governi

    A scorrere quotidianamente i titoli dei giornali, si direbbe che ogni Paese reagisca a modo proprio all’emergenza Coronavirus e con una caoticità disordinata quasi inspiegabile a fronte di un nemico che è ovunque lo stesso e che – pertanto – dovrebbe essere affrontato ovunque allo stesso modo: se non in ogni particolare almeno nelle grandi linee. In parte la sensazione corrisponde a realtà: nell’affrontare il Covid 19 entrano infatti in ballo una quantità di elementi materiali e psicologici, diversi da Paese a Paese, che diversificano le strategie di risposta al virus.

    In buona parte, però, l’immagine di un mondo in cui ciascuno fa a modo proprio è frutto di una sorta di illusione ottica derivante soprattutto dalla diversa tempistica del virus. Più che le strategie di fondo sono spesso diverse le fasi di espansione dell’epidemia, alle quali corrispondono diversi livelli di drasticità. L’aspetto più inquietante, da questo punto di vista, è soprattutto un’assenza di lungimiranza che ha rallentato ovunque, in realtà anche nell’Italia che in occidente è il Paese pilota, la percezione dell’urgenza di misure radicali.

    La Spagna, il Paese europeo più colpito dopo l’Italia con oltre 6mila contagi e 189 vittime sino a ieri, ha adottato le stesse misure dell’Italia. L’Austria ha deciso ieri di seguire la stessa strada. La Francia con quasi 4500 casi, ha deciso la chiusura dei locali non essenziali ma non ancora il confinamento dei cittadini in casa. Sia pure a livello meno drastico del Regno unito, anche Macron ritiene che il contagio non debba essere bloccato ma rallentato, per consentire il progressivo formarsi  dell’ “immunità di gregge”. Ma i toni sempre più allarmati degli ultimi giorni fanno presagire che la strategia francese potrebbe uniformarsi la prossima settimana a quella italiana. La Germania, con 2500 contagi, ha deciso uno stanziamento eccezionale di 550 mld per contrastare il Coronavirus ma ha anche chiuso tutte le scuole e ieri ha ordinato la chiusura dei confini.

    Altri Paesi, tuttavia, rispondono alla pandemia ormai dichiarata in modo radicalmente diverso. La Corea del Sud da un lato, il Regno unito (per ora) dall’altro sono i due casi di risposta più distanti dal modello italiano che, come si è visto, sta via via imponendosi ovunque in Europa. Ci sono poi due situazioni che fanno testo a sé: l’Iran, che con l’Italia è certamente il Paese più colpito dopo la Cina ma sul quale gli ayatollah hanno steso un velo più fitto del burka attraverso il quale qualcosa traspare ma non abbastanza per avere una visione chiara della situazione reale e, di seguito, gli Usa che sembrano ancora brancolare e oscillare. Negli Usa i contagi sono ormai 2800, i morti 58. Da un lato Trump minimizza, dall’altro chiude le scuole, i voli per l’Europa – e dalla settimana prossima anche quelli per il Regno unito – e dichiara lo stato d’emergenza in tutta la nazione.

    In realtà se c’è un modello che andrebbe considerato da tutti è proprio quello della Cina, mettendo da parte una vulgata bugiarda che riduce la reazione della Cina all’epidemia, partita proprio da lì il 31 dicembre 2019, a una blindatura militare della città di Wuhan e della regione dell’Hubei insostenibile per uno Stato democratico. In realtà la strategia della Cina, che in due mesi ha quasi azzerato il contagio, si è articolata su diversi livelli. La chiusura di Wuhan, città di 11 mln di abitanti, decisa il 23 gennaio e poi dell’intero Hubei, regione con 56 mln di abitanti, è stata in effetti molto rigorosa, con blocco delle aziende e dei trasporti pubblici e regolamentazione tassativa delle uscite inevitabili da casa. Ma allo stesso tempo la Cina ha messo in opera un’offensiva sanitaria impressionante, con la costruzione di un ospedale da mille posti in 3 giorni, una mappatura quanto più estesa possibile dei contagi, con circa 1800 squadre di cinque persone ciascuna impegnata, oltre che nel tamponamento a tappeto, a tracciare decine di migliaia di contatti e spostamenti, sino a dividere la popolazione in tre fasce divise per colori: i verdi, a cui sono consentiti gli spostamenti perché sicuri; i gialli, soggetti a rischio con possibile isolamento domiciliare di una settimana e i rossi, in quarantena per 15 giorni. Decisiva, secondo l’Oms, è stato però anche e soprattutto “il profondo impegno del popolo cinese a intraprendere un’azione collettiva contro una minaccia comune”.

    La Corea del Sud ha battuto una strada diversa, facendo leva su un livello tecnologico molto elevato. Ha evitato ogni forma di blindatura ma ha proceduto con una minuziosa tamponatura a tappeto e all’isolamento individuale degli infetti su vastissima scala. Il risultato è stato brillante, soprattutto nel contenimento dei decessi. Su 8mila casi si sono contate solo 67 vittime e il numero di contagi è ormai da giorni stabile.

    All’estremo opposto si colloca il Regno unito. Boris Johnson ha infatti affermato di non voler fermare l’epidemia ma di mirare a farla diffondere in modo da sviluppare rapidamente la cosiddetta “immunità di gregge”. E’ una scelta che privilegia la difesa dell’economia ma anche molto azzardata. In assenza di vaccino la ricerca dell’ “immunità di gregge” potrebbe portare a  decine se non centinaia di migliaia di contagi con il conseguente collasso della struttura sanitaria.

    Il Paese più colpito dopo Cina e Italia, anche stando alle cifre ufficiali probabilmente non credibili, è l’Iran.  Il ministero della Salute parla 14mila contagi e 724 vittime. Il regime degli Ayatollah ha chiesto ai cittadini di non spostarsi e di restare chiusi in casa, ma lo stato reale del contagio e le misure prese dal regime sono in realtà sconosciute. Solo ieri si è scoperto, grazie alle foto satellitari, che nel cimitero di Qom erano già state costruite, alla fine di febbraio, due nuove sezioni, vere e proprie fosse comuni per le vittime del virus.

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